venerdì 30 marzo 2018

Giusta distanza o giusta vicinanza? (ecco come il gioco del basket mi ha fatto comprendere l'importanza della giusta vicinanza)




Il gioco del basket con il tempo mi ha insegnato molto. Tra le varie regole, tecniche di gioco e falli ce nè uno che ho sempre faticato a comprendere. Il fallo di sfondamento.
In sostanza è quel fallo che viene fischiato in favore della difesa nell'istante in cui uno dei giocatori della squadra che porta palla e sta giocando in attacco, praticamente finisce addosso ad uno dei giocatori della squadra in difesa (che nel frattempo è fermo) facendolo cadere a terra.
Certo è una spiegazione un pò contorta, sarebbe più semplice vedere il fallo in azione per capirlo. Anche perchè ci sono sempre delle variabili soggettive e a discrezione di chi arbitra che vanno ad incidere sul fallo di sfondamento.

Mi ricordo di averne subiti di falli per sfondamento, ma uno in particolare è ancora lucido nella memoria. La mia squadra contro una squadra di un comune limitrofo. Tra le avversarie una cara amica con cui avevo giocato insieme anni prima nella stessa squadra e che ora era dal lato opposto del campo di gioco.
Conoscendola sapevo che aveva più esperienza di me, era più abile nel portare palla e nel correre verso canestro. Difesa a uomo, a me è toccata proprio lei. La sola soluzione che mi venne in mente fu di fermarmi, posizionarmi con i piedi ben saldi al suolo e lasciare che in una frazione di secondo lei mi venisse addosso – non aveva altre vie da percorrere in quel momento – facendomi cadere a terra e sentendo fischiare fallo di sfondamente, a favore della squadra per cui giocavo.
Al tempo non fu una lezione così importante. Pensavo solo a dare il meglio in campo e magari a portare a casa la partita.

Oggi quel fallo di sfondamento m'insegna l'importanza della giusta vicinanza.
Sentiamo spesso usare l'espressione "giusta distanza" ma nel lungo periodo sta lunga distanza rischia di allontanare sempre più, invece di sortire l'effetto contrario.
E la cronaca di questi ultimi anni ne ha da dire al riguardo.

E penso al messaggio che un'amica mi ha scritto proprio in questi giorni in risposta a delle scuse che ho sentito di fare, scuse legate a difficoltà relazionali di un tempo ormai passato da un bel pò.
Scrive: "Il nostro legame alla fine di tutto è sopravvissuto ai silenzi. La comprensione credo abbia fatto da timone a tutto questo".

Allora penso che sarebbe più saggio parlare di "giusta vicinanza", un pò come trovarsi nel bel mezzo di una partita di basket, avere la palla tra le mani e la responsabilità di andare a canestro, trovarsi davanti un'avversaria che di certo cercherà di farsi fischiare fallo per sfondamento. Ed è lì, nell'esatto istante in cui sei lucida e consapevole che - basta quel mezzo passo in più, basta un palleggio di troppo a farti carambolare addosso all'avversaria - che ti fermi alla "giusta vicinanza" e passi palla, sperando così di fare pure canestro.

Forse la chiave per vivere relazioni più sane, più consapevoli, più vere sta nel trovare ciascuno la "giusta vicinanza" che diviene
presenza senza per forza opprimere
sostegno senza per forza sostituire
condivisione senza per forza invadere
ricchezza senza per forza voler indietro
accoglienza senza per forza farsi giudice
amore senza per forza doverlo ricambiare
rispetto senza per forza divenire ferita da curare.

Forse – almeno per me – la giusta vicinanza è tutta qui. Un gesto piccolo, a volte talmente insignificante da riuscire a fare tutta la differenza nel mondo delle relazioni.
E le relazioni sono sempre più importanti dei contenuti.
E le relazioni sono tali solo quando si crea la giusta vicinanza che fa stare bene l'uno di fronte all'altro.
E le relazioni, i legami umani, forse hanno davvero bisogno del "timone della comprensione" per restare a galla durante le tempeste della vita e per tenere la rotta ottimale durante i giorni di calma piatta.
Insomma, se possibile, evitiamo il fallo di sfondamento e cerchiamo soluzioni alternative, che ci sono sempre o quasi. Che poi alla fine la partita la vince non per forza il più forte, ma chi sa rispettare la giusta vicinanza e girarla a proprio vantaggio per il bene della squadra.

Ky

martedì 27 marzo 2018

Quando ti accorgi che il rovescio della medaglia non è sempre da scartare (un invito a raccontare la propria storia per smuovere e creare movimenti che legano quello che è stato a quello che si è)




È buio pesto fuori. Con il cambio d'orario è ancora più buio. Alle 5 del mattino ancora più buio del buio. Quasi quasi mi pento di essermi già alzata. Ma ormai che ci sono, mi scaldo con un tea fumante e accendo il pc. Un foglio, un nuovo bianco foglio attende inchiostro che prenda forma, che si faccia parola, che diventi significato, che racconti un'altra storia.

Leggendo un articolo – di non ricordo chi - qualche tempo fa, ho trovato un bellissimo significato legato al raccontare, allo scrivere storie. Le storie che hanno come compito quello di smuovere, di creare movimenti. Significato intenso ed allo stesso tempo impegnativo.
Non è facile "smuovere" e tantomeno "creare movimenti". Non è neppure impossibile però. Il rovescio della medaglia è sempre poco gettonato.

Ed allora scrivo, o ci provo, una nuova storia. Storia che racconta di incontri. Incontri che hanno il sapore del ritrovarsi. Ritrovarsi che ogni volta è accolto dall'abbracciare e dal lasciarsi abbracciare.
Gli ultimi 4 mesi in Oriente mi hanno lasciato addosso necessità di abbracci. Sarà perchè nella cultura tailandese è molto raro l'abbracciare, e così mi sono trovata ad abbracciare e lasciarmi abbracciare solo da Nadia (che ringrazio di cuore per avermi donato un'infinità di abbracci) e dai 9 mici che girovagavano per casa. Necessito dunque anche di abbracci diversi, con diverse vibrazioni, diversi sapori, diverso sentire, diverse intensità, diverso calore.

La comunicazione e l'organizzazione di un incontro oggi è rapida, quasi immedita, un pò come lo era un tempo spedire una lettera per posta prioritaria. Basta un whatsapp e ci si organizza per il tal giorno a un determinato orario.

Ritrovo a cena, 5 giorni fa, con Picci. 
Un incontro atteso. Un incontro di quelli dove sai che il primo, primissimo gesto che farai dipenderà tutto dalle tue braccia. Ma questo gesto dell'abbracciare non serve mai prepararlo, almeno non per me. È naturale, come era naturale prendere tra le ditina paffute di bimba una ciocca di capelli di mamma o papà e rigirarla tra le dita fino a che il sonno non arrivava.
E ti abbraccio e mi lascio abbracciare. E così la distanza accumulata in questi 4 mesi lontane diminuisce visibilmente. Ci si racconta, ci si ritrova uguali, o quasi – io nel frattempo con qualche ruga nuova - ma con un pò di vissuto in più ad arricchire le nostre vite.
Parlando ci viene un'idea forse un pò folle, o fuori dai classici schemi. Un diario in condivisione. Vedremo cosa ne uscirà da qui ai prossimi mesi. Due generazioni a confronto, due generazioni che raccontano, condividono e scambiano pensieri, esperienze, idee e sentire. Tu poco più che ventenne, io ormai quarantenne. Sarà di certo una bella esperienza. Grazie!

In questi giorni non potevo non abbracciare te mia carissima Marì. Un'amicizia lunga quasi 20 anni. Il sorriso e l'abbraccio che ci regaliamo sono sempre ogni volta colmi di gioia. La gioia del rivedersi, nonostante ciascuna porti avanti la propria vita, nonostante – anche quando sono qui a casa – non ci si veda poi così tanto. Un'amicizia indelebile, di quelle che nessun cancellino, nessuna gomma, nessun bianchetto può coprire. Quasi 20 anni di tanta roba vissuta assieme. Quasi 20 anni per cui ringrazio sempre di averti incontrata tra i miei incasinati passi. Quasi 20 anni che ti prendi cura di me ed io di te, ciascuna a modo proprio, con i propri tempi e le possibilità date dal momento. Grazie!

E arrivo da te. Da te P.S. 
Da te che ti ho incontrata appena diciassettenne. Da te che sei entrata come una ventata di allegria e gioia allo stato puro nella mia vita. Da allora di cose ne abbiamo vissute. Tu con le tue esperienze di crescita e di passaggi da un'età balorda – com'era il tempo dell'adolescenza – al divenire donna. La donna che oggi mi ritrovo davanti. Io con le mie fatiche da persona che tentava di divenire adulta ma che faticava nel fare il passaggio. Ci ritroviamo una di fronte all'altra. Due donne. Due percorsi molto diversi. Vicine per un brevissimo flash di vita. Eppure in questi intensi 10 anni il bene è sempre rimasto e con questo il nostro modo di abbracciare. E lo spazio di ritrovarci almeno una o due volte l'anno l'abbiamo sempre trovato.
Questa volta mi hai accolta nella tua nuova casa. E non hai fatto in tempo ad aprire la porta che ero già con le braccia attorno a te. Mentre tu tentavi di richiuderla. Sai bene che nel modo di abbracciare sono sempre la solita. E ci si racconta, si riprendono i discorsi lasciati a mezz'aria un anno fa. Si percepisce la crescita che il tempo che passa porta inevitabilmente con sè. Si ritovano fragilità e paure. Si scoprono nuovi pensieri e scelte di vita, traguardi raggiunti o quasi e nuove porte da avere il coraggio di spalancare. Io come al solito seduta a gambe incrociate sul pavimento che ti ascolto mentre mi racconti, mentre ti racconto. Ed ogni tanto, tra una parola, una risata di gusto, parole buttate là in dialetto veneto, aquiloni e buoi ed un caffè preso alle 5.30 del pomeriggio – che mi ha tenuta sveglia tutta la notte – ci si abbraccia, quasi a voler mettersi in pari con il tempo lasciato alle spalle. Grazie!

La macchina macina chilometri. È una bellissima giornata di sole dopo tanto freddo. La meta è Padova. Ogni volta un casino per parcheggiare. Ma ce la faccio anche questa volta. Passo per Prato della Valle, piazza che adoro. Ogni anno, al mio rientro dall'Oriente, vengo a trovarti. Un appuntamento fisso. Un incontro per me sacro. Come al solito arrivo sempre in anticipo, non di molto questa volta. Appoggiata al muro ti aspetto. Sono assorta nei miei pensieri. Mi chiami. Mi volto e ci si abbraccia. Un giro di scale, la porta si apre e ritrovo la stanza, la solita stanza che mi ha accolto per molto tempo. La stanza dove ogni volta entro, mi siedo sulla poltrona in modo scomposto – non questa volta però – e dove ancora una volta non ti lascio tempo di togliere il cappotto che sono già lì ad abbracciarti. Una stanza che è un pò un rifugio, una casa dove stare in pace, dove raccontare o stare in silenzio. Finalmente lascio che anche tu ti sieda. Mi guardi. Ti guardo. Sorridi. Sorrido. Prendo un paio delle mitiche liquerizie che tieni immancabilmente sul tavolo. E poi ci si racconta. Forse sono io che racconto di più. Tu ascolti. Ascolti in quel modo che mi piace tanto. Ripercorriamo un pò i passi a ritroso e facendo due rapidi calcoli viene fuori che ci conosciamo ormai da 16 anni. Fatico a crederci, ma in effetti è proprio così. Non ci siamo mai perse di vista in tutto sto tempo. Non ci perderemo di vista nemmeno in futuro. Fa solo strano non sentire la solita domanda che mi facevi ogni volta prima di salutarci "quando riparti?". Già, suona strano. Ma questa volta non ho nessuna risposta, nessuna data di partenza. Sono qui. Resto qui. Per ora. Nessuna certezza. Tranne quella del bene che ci lega così profondamente. Un caffè tu, un succo io. Un salto in libreria. Un altro inteso e profondo abbraccio. E sono di nuovo sulla via del ritorno. Grazie!

È il tuo turno cara P. 
Amica di corse campestri e passaggi di pallavolo in campi improvvisati. Amica da 25 anni. Certo ci siamo perse lungo il percorso. Oggi però siamo qui, ancora una volta, sempre le stesse. Tu in tuta da ginnastica, io in jeans. Tu con figli, io nessuno. Ma siamo qui. E ci raccontiamo. Cercando di ascoltare il poco che riesci a dire tra le righe per non farti sentire dai ragazzi. Hai preso una decisione importante. Un cambio rotta che sentivi da tempo e che oggi diventa respiro. Un nuovo inizio. Sei coraggiosa, hai tutta la mia stima ed il mio appoggio. Un abbraccio di sfuggita, quasi al volo il nostro. Questo modo di volerci bene non è mutato nel tempo, e più che un abbraccio noi siamo donne da una pacca sulla spalla. Mi è sempre piaciuto questo gesto condiviso con te. Grazie!

E si fa sera. La stanchezza del giorno si fa sentire. Le emozioni però rendono tutto più leggero e vivo. È stata una ventata d'aria buona ricevere e donare tutti questi abbracci.
Sono stati giorni intensi di storie sempre piene di dettagli nuovi da raccontare e raccontarsi. Storie vere che hanno la capacità di smuovere, di creare quei movimenti che rendono l'esistenza più densa, più ricca, più donna e più umana.
Grazie a ciascuna di voi per il bene, per gli abbracci o le pacche sulle spalle, per i sorrisi, le parole condivise, le emozioni velate ma presenti, per il raccontare ognuna la propria storia. Grazie perchè non è mai impossibile creare movimenti nuovi, aprire nuove porte o chiuderne altre.
E capisco così che il rovescio della medaglia non è per forza sempre da scartare.

Ky



















domenica 25 marzo 2018

Quell'istante in cui si crea l'alchimia della gentilezza (tra libri, sguardi, gesti e poche parole) e resti imbambolata con un libro tra le mani.




Mi sono svegliata presto stamani. Sarà per il cambio orario. Sarà che aleggia ancora il jet lag tailandese. Ancora buio fuori. Pentolino d'acqua sul fuoco. Preparo la colazione. Mi siedo e come uno "sbam" sbattuto in faccia all'improvviso ripenso a ieri, a quei 15 minuti passati in libreria, prima di scendere a Castelfranco Veneto. Da ieri, da quando sono accaduti, li ho come lasciati in stand by.

È una tappa d'obbligo per me il passare in libreria dopo i mesi trascorsi inThailandia, in una cittadina dove gli unici libri disponibili sono o in lingua locale, o in inglese e francese.
Solitamente faccio la scorta passando per Bangkok, ma di libri in lingua italiana ce ne sono sempre troppo pochi. Allora leggo tramite i dispositivi elettronici.
Ma vuoi mettere un libro da tenere tra le mani, che sa di carta stampata, di vita magari già vissuta, di pagine un pò ingiallite e magari con quel retrogusto di vecchio, che rendono i libri ancora più preziosi?
Per questo passo spesso in libreria, per sentire profumo di libri, di nuove cose da imparare, di parole che fanno riflettere, di parole che riescono a far innamorare l'anima della vita.

Ieri, mentre cercavo un libro - che non ho trovato - mi si avvicina una signora.
Vestita con la mantellina quella pesante di lana per far fronte al freddo che c'è fuori. Occhiali appoggiati tra i capelli, sciarpa color vermiglio attorno al collo ed una busta zeppa di libri, appena acquistati suppongo.
Mi si avvicina con un bellissimo sorriso e gli occhi color nocciola, mi guarda per un istante che a me pare eterno.
Stavo leggendo la trama di un libro di cui la copertina m'aveva incuriosito.
Lei mi saluta con un sonoro "ciao". Mi volto ricambiando il saluto con un "salve" ed il miglior sorriso che mi poteva venire fuori in quell'istante.
Appoggia la busta zeppa di libri a terra, si china leggermente e tira fuori un libro dalla copertina flessibile color acqua. Non riesco a leggerne il titolo.
Si rialza, mi riguarda dritta negli occhi. Per un istante interminabile mi sono sentita nuda ma serena di fronte a quello sguardo. Prende il libro e lo dirige con gesto delicato ma fermo verso di me.
Interdetta la guardo non capendo che cosa dovessi fare.
Lei allora dice con un tono dolcissimo "è per te questo libro".
Attimo di smarrimento evidente sul mio volto. Esito a prendere il libro. È una situazione insolita. Manco la conosco questa signora. Lei con il gesto della mano mi mette il libro tra le mani e ripete "questo libro è per te, sento che è per te, non temere è un regalo".
Smarrimento decisamente più evidente sul mio volto. Non mi escono subito le parole. Ma prendo il libro, guardo la prima di copertina e dico con sorpresa mista a gioia "wow, è uno dei libri che prima o poi avevo intenzione di leggere".
Alzo lo sguardo verso la signora che compiaciuta ha già ripreso tra le mani la pesante busta zeppa di libri. Mi sorride. La ringrazio, perchè non so che altro dirle. E se ne va.

Ed io lì con il libro tra le mani e gli occhi che guardano la signora uscire dalla libreria. Credo di essere rimasta così per un tempo indeteminato, tanto che la commessa mi si avvicina chiedendomi se sto bene. Mi ripiglio.
Sinceramente non riesco ancora a comprendere cosa sia accaduto ieri. Credo una sorta di alchimia, di magia, di quel sentire che attrae anime forse simili.

Il libro ora è tra le mie mani. È l'ultimo scritto di Andrea Marcolongo e s'intitola "La misura eroica". Leggo il risvolto della prima di copertina. Racconta del mito degli Argonauti e del coraggio che spinge gli uomini ad amare.
Resto ancor più imbambolata a fissare il libro. Incredula che una perfetta sconosciuta mi abbia fatto un dono così prezioso. E nella pagina successiva all'indice, trovo queste parole scritte dall'autrice :

A tutti coloro che rigettano l'infelicità,
e hanno il coraggio di salpare,
per la prima volta o un'altra ancora.
A tutti coloro che hanno il coraggio
di innamorarsi,
per la prima volta o un'altra ancora.
Eroi.

Sarà perchè adoro tutti i miti greci, sarà perchè spesso attingo ai miti per affrontare le sfide e le occasioni della vita. Sarà moltissime altre cose tutte incasinate che vorticano nella mia testa in questo istante.
Ma questo è il dono più prezioso che potessi mai immaginare di tenere tra le mani.
Grazie signora senza nome. Non la dimenticherò mai.
Credo questo possa definirsi gesto di "alchimia della gentilezza", quell'alchimia tra anime che si ritrovano e si riconoscono - in un qualche modo sconosciuto ed incomprensibile - in pezzi d'esistenza di vite altre.

Ky

giovedì 22 marzo 2018

Quando un cerchio si chiude (è bene che la copertina di Linus sia a portata di mano)




Mi sono svegliata pensando ai cerchi.
Ho cercato in internet qualche frase che parlasse di cerchi, di fine cicli, di nuovi portoni da aprire ed opportunità da cogliere.

Chiusa una porta si apre un portone.

Il cerchio non è altro che una linea retta che ritorna al suo punto di partenza. (Frederic Dard)

Noi pensiamo troppo in piccolo. Come la rana in fondo al pozzo che pensa che il cielo sia grande quanto il cerchio in cima al pozzo. Se giungesse all'esterno avrebbe una visione interamente differente. (Mao Tse-Tung)

Sarà perchè proprio in queste ultime ore si è chiuso un cerchio importante della mia vita.
Sarà perchè da molti mesi a questa parte ci sono stati molteplici piccoli, grandi, visibili e più nascosti segnali, lì ad indicare che il tempo di chiudere il cerchio e passare ad altro era inevitabile.

Sarà...e ricordo come fin da bambina disegnavo -a volte consapevolmente, altre meno- disegnavo cerchi sul foglio. Magari mentre con gli occhi e la testa ascoltavo la lezione di turno dietro il banco di scuola. E spesso mi ridestavo solo quando la punta della biro s'inceppava a causa di quello strap che si formava sul leggero foglio di cellulosa, andando così a segnare e magari a rovinare anche la pagina successiva del malcapitato quaderno.
Quello strap mi ridestava.
Mi costringeva a posare lo sguardo su quei cerchi infiniti, che poi tanto cerchi non sono stati mai. Più che altro degli ovali neanche troppo regolari.

Ci ripenso solo oggi a quei disegni, a quei presunti cerchi.
E comprendo che è proprio vero come la vita sia un continuo vivere in tondo.
Un vivere che però aggiunge e toglie ogni volta un qualcosa, in più o in meno.
Un vivere composto di cerchi, più o meno grandi, più o meno flessibili, più o meno violabili.
Si parla di spazio vitale pensando a quello spazio necessario ad ogni persona per respirare e potersi muovere con facilità. Spazio che ho sempre immaginato come un cerchio. Soggettiva la circonferenza.

Soggetivo e personale anche scegliere a chi e a cosa fare posto dentro questo cerchio.
In verità sono solo cerchi immaginari, cerchi che ci aiutano ad affrontare con un pò di serenità in più l'esistenza.
Cerchi che assomigliano -non per forma ma per significato- alla famosa e consumata "copertina di Linus".
Cerchi che utilizziamo per proteggerci, per proteggere, per accogliere, per coccolare, per consolare, per tenere le distanze, per difenderci e difendere, per raccontare e per ascoltare.

I cerchi poi, non si chiudono mai veramente, non alla perfezione.
A meno che non usiamo un compasso.
Non si chiudono quasi mai quando di mezzo ci sono emozioni, occhi, pelle, mani, sguardi, sorrisi, lacrime, affetti, parole e gesti che hanno segnato e fatto la differenza nella nostra vita.
Non si chiudono i cerchi perchè non sono perfetti, non lo sono mai o quasi mai.
Preferisco l'imperfezione, così posso lasciare sempre una piccola apertura in quella continua curva di cui sono fatti i cerchi. È più facile così entrare ed uscire, lasciar entrare e lasciar uscire.
È come se ci fosse più apertura, più spiragli d'aria, meno senso di chiusura.
E così mi piacciono quei cerchi che cercano di trovare punti di contatto con tanti altri cerchi, imperfetti, piccoli, grandi, flessibili.
Cerchi che sembrano volersi in qualche modo incastrare con cerchi altri.

Se mi volto un istante e guardo quello che è stato in questi 40 anni, scorgo cerchi -imperfetti ed ammaccati - che si toccano, si sovrappongono, si confondono, si completano, si scontrano, si fanno largo, sgomitano, attendono, si fanno da parte...eppure ciascun cerchio ha reso questa esistenza ricca, sofferta, una costante conquista. E ne è valsa davvero la pena fin qui.

In fondo sono i cerchi che ci danno la capacità di assimilare e contenere, una dopo l'altra, esperienze.
Dentro i cerchi custodiamo quello che abbiamo imparato cammin facendo, quello che ci ha fatto cadere, quello che ci ha fatto esultare, quello che abbiamo compreso, quello che non vorremmo più rifare o rivivere. Custodiamo persone e affetti, amicizie e amori.

Certo, oggi per me, resta il fatto che anche questo cerchio si è chiuso. Meglio, si sta prendendo tempo per lasciar andare quello che non è necessario per il domani, e sta facendo spazio per il nuovo che di certo ci sarà, quel nuovo che si spera di trovare ogni volta che si chiude una porta alle proprie spalle.

Di sicuro, è un cerchio che continuerà a guidare i miei passi nel mondo, insieme a tutti i cerchi più o meno grandi, più o meno flessibili, imperfetti e molteplici che ho alle spalle.
Cerchi che sono logori, vecchi, ricchi di ricordi ed esperienze, colmi di vissuto e che sanno rassicurarmi quando sembra di non vedere possibilità nuove.
Cerchi che hanno ancora la forza e la capacità di tenermi a galla ogni volta che sento la necessità di farmi avvolgere da quella logora, vecchia ma rassicurante "copertina di Linus".

Ky


*immagine presa dal web

sabato 17 marzo 2018

"Non abbiamo mai perso nessuno, signora" (quando una frase detta con gentilezza diventa spiraglio di luce nei momenti difficili dell'esistenza)




Marco Polo Venezia, aeroporto.
Ieri. Dopo una settimana dal mio rientro da Bangkok, eccomi di nuovo qui.  Con Nadia, mia inseparabile compagna di viaggio, ed un'altra persona.
Nessuna partenza prevista, almeno non per me, noi. Ma la tentazione di fare un biglietto al volo e partire mi ha sfiorata per un istante.
Accompagno quest'altra persona.

Gli aeroporti mi piacciono.
Un pò perchè sanno di internazionalità e multiculturalità. Tutto il mondo o quasi in pochi metri quadrati.
Un pò perchè invitano all'attesa. (A meno che non si sia dei ritardatari cronici).
L'attesa negli aeroporti a volte pare eterna, ma comunque piena di piccoli step da compiere, altrimenti "ciao volo".
Check in, consegna bagaglio stiva, security control, ricerca del gate. Dove cavolo ho messo il passaporto? E così via...
Insomma c'è un pò da darsi da fare, almeno un minimo indispensabile.

Di aeroporti ce ne sono di tutte le dimensioni. Quelli a misura d'uomo in cui, se tra un volo e l'attesa di quello successivo, ci sono troppe ore di scarto ti trovi a fare le "vasche", come essere in una di quelle piazze di un tempo dove i giovani e le giovani in età da marito si trovavano a fare le "vasche" per corteggiare e lasciarsi corteggiare.
In realtà oggi è un pochino diverso. Negli aeroporti si fanno le "vasche" per corteggiare il proprio smarphone.
E poi ci sono quelli immensi, queste megalopoli al coperto, dove non basta una settimana per visitarli tutti. Dove all'interno ci sono shops, pub, supermarket, lodge, massaggi, info point, smoking room, prayer room, pronto intervento e chi più ne ha più ne metta. Giganteschi complessi che, la prima volta che ci metti piede, ti viene da esclamare "oh cavolo, e adesso dove vado?".

Mi sono arrivate alla memoria tutte queste immagini, mentre ero in attesa che la persona finisse il check in. In attesa vicino all'info point della compagnia Emirates.
Qui una signora stava chiedendo info. Il suo primo volo. Scalo a Dubai (gigantesco per chi non ha mai volato prima d'ora). Attesa di molte ore e poi volo verso una destinazione che non ricordo. L'età quella degli -anta. Il suo evidente smarrimento negli occhi tipico "della mia prima volta".
Ed ho apprezzato la voce gentile e lo sguardo dolce della hostess che anche senza parole riusciva a trasmettere senso di protezione e sicurezza a questa donna un pò smarrita.
Credo abbia avuto la prontezza e la capacità di pronunciare quella frase che forse tutti vorremo sentirci dire una volta nella vita "non abbiamo mai perso nessuno, signora".
Una frase così semplice e lineare. Una frase che ha rassicurato anche me che non dovevo partire. Frase che mi ha ricordato l'importanza e la necessità che ogni essere umano ha bisogno di sentire in alcuni momenti difficili o confusi della propria esistenza. Frase che ha saputo farsi quasi compagna di viaggio, invisibile ma presente. Frase che ha il sapore del "prendersi cura", del "non temere, non sei sola", del "tutto andrà bene perchè non abbiamo mai perso nessuno, signora".

Quante volte lungo questi miei 40 anni di vita, ho sentito forte la necessità di un "non abbiamo mai perso nessuno". È vero anche che dentro noi dovremmo avere le risorse necessarie e sufficienti per cavarcela in ogni situazione più o meno complessa. Ma è altrettanto vero che ci sono momenti, istanti e situazioni che avere davanti gli occhi uno sguardo dolce, una voce gentile e rassicurante, quasi come fossero mani delicate che si poggiano sulla nostra spalla...bhè, questo vale più di mille parole gettate al vento tanto per, più di mille messaggi o whatsapp.
Vale tutto l'oro del mondo trovare chi, almeno una volta nella vita, abbia la capacità d'intuire le nostre fatiche, i nostri smarrimenti e di dirci con calma e dolcezza "non abbiamo mai perso nessuno, signora".

E che buon viaggio sia!


martedì 13 marzo 2018

Resistenti come le radici degli alberi (nonostante tutto, questa è la nostra forza invisibile)




Sarà ancora un pò colpa del jet lag ma sta iniziando a piacermi l'idea di svegliarmi senza necessità di bip e allarmi vari (spesso fastidiosi). Svegliarmi quando fuori ancora tutto è buio. Le luci nelle case sono ancora spente. Solo i lampioni lungo le strade emanano i loro chiarori resi tenui della foschia di queste mattine fredde del Nord-Est italiano.
Mi piace la quasi assenza di suoni e rumori. Solo un paio di motori d'auto che si dirigono verso il luogo di lavoro. Ed i miei passi ovattati dalle ciabatte che vagano per la cucina.
È da un pò di mattine che mi alzo così. Metto l'acqua sul fuoco. Attendo che bolla. C'infilo la bustina di tea. Attendo che passino i 5 minuti canonici per l'infusione. Verso il tea nella tazza e mi siedo vista natura sorseggiando la bevanda bollente. (Sono fortunata). Attendo così di vedere i primi spiragli di luce di un giorno nuovo che inizia. O forse è già iniziato da tanto. Mentre ancora dormivo sotto strati di coperte calde.
E poi ecco la luce che piano piano prende faticosamente posto tra la foschia. Saluta il buio. Dà il buongiorno al mondo. 
Davanti a me la collina su cui da bimba mi arrampicavo, quasi fosse il mio Everest impossibile. 
Collina che mi ha visto ridere e piangere. 
Collina che mi ha visto correre con i miei cani di un tempo o camminare a fianco di papà. 
Collina che ha ascoltato con infinita pazienza i primi tentativi di strimpellare pochi e stonati accordi sulla chitarra. 
Collina che mi ha accolto tra i suoi prati ed i suoi alberi. 
Collina che mi ha regalato piste innevate e fiori a perdifiato. Collina che mi ha concesso di raccogliere castagne, muschio e rami di pungitopo.
Collina che mi ha regalato l'occasione di scorgere volpi e caprioli, lepri e altri esseri del bosco.
Ora so che non è più quell'Everest impossibile. Ci salgo con un pò d'affanno, dato dal tempo che scorre anche per me. 
Ci salgo. Quando arrivo in cima sulla spianata verde salgo su un altare di pietre, lì da così tanto tempo che non saprei nemmeno dire. Altare di pietre da cui vedo quasi tutto il paese dove sono nata e cresciuta.
È una sensazione intima e profonda. Una di quelle sensazioni che nessuna parola descrive. Dunque è magia per me e mi piace pensare sia così ancora oggi, a distanza d'anni.
E penso agli alberi. Varie forme e dimensioni, diversi eppure capaci di condividere spazi comuni.
Gli alberi. Oggi sono spogli, quasi tutti, quasi del tutto. Da lontano sembrano secchi, vecchi e provati dall'inverno rigido e poco clemente. Alcuni curvi, quasi piegati su se stessi. Come vedere un vecchio ormai verso la fine della sua corsa.
Eppure sono vivi. Guardandoli bene si vede che respirano, che vivono e che hanno la capacità naturale di godersi ogni istante. Hanno la capacità di non fermarsi alle apparenze. Non è importante se le foglie sono cadute o se le foglie riempiono i rami di una chioma magnifica.
Importa quello che li sorregge e che li fa vivere. Quelle radici profonde, antiche, ben radicate eppure flessibili che non si vedono. Radici che creano quasi un mondo sotterraneo. Radici che quasi probabilmente sono lo specchio dei rami che si stagliano verso il cielo. Uno specchio tra terra e cielo.
Dovrei ricordarmi di più delle mie radici. Non quelle che mi fanno sentire appartenente ad un luogo fisico. Ma quelle radici che mi ricordano che nonostante ogni avversità, nonostante la paura, la crisi di questi tempi, le difficoltà e tutto ciò che ci sta dentro. Nonostante tutto ci sono radici profonde, antiche e forti che mi reggono in piedi. Che reggono in piedi ciascuno di noi.
Basta ricordarci di portarle alla luce per rinvigorirle, rinforzarle e dar loro quel calore necessario a proseguire lungo i percorsi dell'esistenza. In fondo le radici sono tutti i passi che facciamo ogni giorno, ogni istante, in ogni luogo del mondo.

Ky

domenica 11 marzo 2018

Un viaggio tra anima, gps e ricalcola (in fondo tutto è sempre questione di fiducia)




Home sweet home.
Ha una punta di verità questo modo di dire. Anche di internazionalità.
È proprio dolce ritrovarsi tra le pareti di casa. Guardare oggetti familiari. Ricordi indelebili.
Immagini che sembrano ancora piene di vita.

Ancor più dolce è tornare a casa. Togliersi le scarpe impolverate e più logore, dopo tanto viaggiare. Poggiare lo zaino a terra. E lasciare che gli occhi si riadattino al già conosciuto.
Un ritorno che catapulta, quasi nell'immediato, al prima della partenza. Una sorta di deja vu.
Ma lo zaino (non quello materiale) dell'anima è di certo più ricco. Svuotato di quello che era. Svuotato del di più che non serve a progredire. Riempito del guardare con fiducia al passo successivo da compiere.

Sono ormai a casa da più di 48 ore. Il mio corpo ha davvero ripreso il ritmo forsennato dell'Occidente. E così ho deciso di assecondare queste corse repentine. Assecondano richieste ed inviti. Necessità pseudo urgenti e situazioni superficiali. Come a dimostrazione che sono tornata e non ho dimenticato il come si vive qui. Adeguandomi così, in apparenza, alla realtà familiare. Lasciando per un pò da parte il mio vissuto appena trascorso.

Consapevole che però l'anima è rimasta indietro. Non era nel volo con me e nemmeno in treno verso casa. È ancora indietro. Immagino si stia godendo il viaggio di ritorno. Immagino abbia preso altre rotte per tornare alla home sweet home.

Immagino la mia anima, stare talmente bene dov'era lì in Thailandia, che controvoglia si è ritrovata a dover rifare i bagagli e rimettersi in viaggio. Me la immagino con il suo Gps che, come al solito, non è aggiornato su tutto quello che è accaduto qui, nel frattempo. Gps che, spesso e volentieri, costringe l'anima a mettersi in pausa per lasciar tempo di svolgere l'operazione di ricalcola.

La vita è un continuo percorso fatto da tanti ricalcola. Non solo quelli che servono per ritrovare la destinazione giusta. Ma tutti quei ricalcola che la vita richiede di compiere, perchè siamo umani, imperfetti, in continua evoluzione. E nulla di tutto ciò che viviamo fila quasi mai liscio. C'è sempre un ricalcola da mettere in conto o con cui fare i conti. A volte forse sarebbe meglio seguire più l'istinto e la sensazione dettata dalla pancia e spegnere un pò quel Gps interiore che vorrebbe averla sempre vinta. Forse però questo il nostro corpo non lo comprende.
Ma la nostra anima lo sa bene.

E così, lei, si prende tempo. Rielabora i mesi appena vissuti. Li fa propri. Lascia ciò che ingombra.
Tiene ciò che l'ha fatta evolvere. La cosapevolezza raggiunta è quel "pò di più" che, oggi, fa la differenza. E, lungo il percorso di ritorno, comprende che ogni luogo ha il gusto della home sweet home. Gusto che è dato dagli incontri. Dalle scelte intraprese. Dai sogni realizzati. Dalle parole non dette. Dalle pacche sulle spalle che hanno raccontato più di mille parole. Dai sorrisi colti al volo nei vari incroci dell'esistenza.

Home sweet home, è dove la nostra anima si sente bene. Un bene, che se vogliamo, può essere scovato ovunque (senza per forza fare affidamento al Gps di turno). L'anima. L'anima conosce già la via da seguire. Dipende da noi. È questione di fiducia. Tutto è sempre questione di fiducia.

Ky


martedì 6 marzo 2018

Ed oggi "ho fatto la mia parte?" (quando si danno per scontate le domande essenziali)




Bangkok. Eccomi qui. Ancora una volta. L'ennesima.
Non amo questo luogo. Un pò perchè non ho mai amato le grandi città dove spesso mi sento un pesce fuor d'acqua. Io abitante di un paesino di 700 anime, animali inclusi.
Un pò perchè dopo 4 mesi in mezzo a volti birmani e thailandesi e pochi volti occidentali, qui, a Bangkok mi ritrovo sommersa e circondata da occidentalità.
E ammetto che più passano gli anni più mi sta stretta.
Certo, è il mio punto di vista. Ma per me è una difficoltà da re-imparare a gestire ogni volta da capo. E faccio fatica anche una volta poggiato piede in patria.
Credo non mi abituerò mai a questo cambio totale di prospettiva. Posso però imparare a conviverci.

Ed eccomi qua. 4 mesi alle spalle ricchi di volti, di progetti, di nuovi amici felini.
Mi chiedo se in questo spazio e tempo ho fatto la mia parte.
Credo di sì. Sempre una piccola parte. Ma almeno una goccia in più che si è gettata nell'oceano dell'esistenza.

Mi sovviene una favola africana in cui si narra che durante un incendio nella foresta, mentre tutti gli animali fuggivano, un colibrì volava in senso contrario con una goccia d'acqua nel becco.
"Cosa credi di fare!" gli chiese il leone. "Vado a spegnere l'incendio" rispose il colibrì.
"Con una goccia d'acqua?" disse il leone con un ghigno di derisione.
E il colibrì, proseguendo il volo, rispose: "Io faccio la mia parte".

Già. Sembra scontato. Ma non lo è mai.
Spesso non ci pensiamo nemmeno a fare la nostra parte. Così presi ad impicciarci delle vite altrui. Cercando pure di essere i consiglieri di turno o di sparare sentenze a zero. E, magari, non abbiamo coraggio di guardare verso noi stessi. Di interrogarci ogni giorno su "qual'è la mia parte?".
Sembra scontato. Ma non lo è mai.
Ci vuole tanto coraggio ad essere quel piccolo colibrì caparbio. È decisamente più facile e comodo essere il leone di turno.
In questo ultimo e breve spazio tailandese, ringrazio chi ogni giorno mi ha mostrato che basta poco, davvero molto poco, per arrivare a fine giornata e dire "IO HO FATTO LA MIA PARTE".

Ky

sabato 3 marzo 2018

Come si misura la semplicità? Grazie ad un paio d'ali di farfalla (attraverso l'arte del tralasciare, la capacità di vivere l'istante e la magia del saper vedere bellezza dove non c'è)



Leggevo vari commenti ad un post. Direi una bugia se dicessi di cosa trattava.
È passato un pò di tempo. Non ricordo nemmeno se era un post su Facebook o Linkedin.
Uno, più di tutti gli altri, ha catturato la mia attenzione.
Non un'affermazione. Non una risposta. Non un punto di vista. No. Niente di tutto questo.
La mia attenzione è stata attratta da una domanda che non ho mai pensato di farmi.

Come si misura la semplicità?

Bella questa. Già.
Come diavolo si misura la semplicità?
Davvero non saprei che rispondere. Almeno, non io.
Forse prima di trovare il metro di misura sarebbe da chiedersi cos'è la semplicità.

Credo ciascuno abbia una propria versione di semplicità.
Dunque parlo per me. È solo il mio punto di vista.
L'arte di capire ciò che si può tralasciare.
È questo il mio concetto di semplicità.
La semplicità è un'arte. L'arte è sempre un qualcosa di soggettivo.
Quel qualcosa che smuove in noi emozioni sempre diverse.
Visioni differenti. Modi di sentire intensi e personali.
Ma la semplicità non è solo arte. È anche un'arte particolare, quella che sa tralasciare tutto ciò che può essere lasciato andare, messo da parte, accantonato.
Una sorta di arte che sa lasciar scivolare tra le dita tutto quelle cose, situazioni, sensazioni, occasioni, delusioni, emozioni che sono un pò di troppo.
Che occupano troppo spazio e tempo. Che non fanno andare al nocciolo della questione.
Insomma, tutto ciò che in qualche modo è un in più e che non può essere d'aiuto o di alcuna utilità per il nostro percorso di vita.

Ora mi resta la parte più complessa. Il come si misura la semplicità.
Uso un'immagine. Reale. Viva. Come se mi fosse appena accaduta.
Due o tre anni fa, non ricordo.
In scooter con Nadia. Direzione collina per raggiungere uno dei progetti umanitari di cui ci occupavamo al tempo.
Nel cuore della città, in una delle tante strade che la fanno sentire viva.
Davanti a noi, un ragazzino in sella ad una bicicletta sgangherata.
Fissati al portapacchi una pila di cartoni in precario equilibrio e due sacchi di juta, che un tempo dovevano essere di un bel bianco, che penzolano ai lati della ruota posteriore, zeppi di lattine, bottiglie di plastica e cianfrusaglie vari, tra cui - quasi certamente - pure del cibo magari andato a male.

È facile intuire da che zona viene il ragazzino.
Se ne vedono molti come lui lungo le vie di Mae Sot, qui in Thailandia.
Sono i ragazzini del quartiere musulmano.
Il più povero tra i vari quartieri, ma anche il più popolato.
Chi non ha avuto fortuna, sopravvive grazie ai cassonetti della spazzatura.
Un sorta di "popolo dei cassonetti" che fa la raccolta differenziata da cui poter ricavare qualche spicciolo per mettere insieme almeno un pasto al giorno.
E solitamente le bocche da sfamare non sono poche.
Il ragazzino in questione non l'ho visto in volto. Era davanti.
Dunque lo si vedeva solo di spalle.
Una visuale ottimale mi viene da dire.
Una visuale che mi ha mostrato il metro di misura della semplicità: un paio d'ali di farfalla appese con un sottile filo alle spalle del ragazzino.
Ali sgualcite, di un viola sbiadito. Ali sporche, sporche di spazzatura e con evidenti buchi sulla stoffa consumata ormai da chissà quanto tempo.
Di certo quel ragazzino le avrà trovate dentro uno dei svariati cassonetti.
Immagino lo stupore che si sarà dipinto sul suo volto alla vista di quelle ali.
I sogni ed i voli che ha fatto ad occhi aperti.

Forse ali più per una femminuccia. Ma qui non si guarda al rosa bambina, al blu maschietto.
Qui si coglie l'istante, l'occasione per trovare bellezza dove la maggior parte non la vede.
Quell'istante tanto semplice quanto ricco che fa accendere sorrisi su volti sporchi, con mani già adulte, dentro corpi minuti, curvi sotto spalle già cariche di responsabilità.
La semplicità è tutta qui, in un istante.
Un'istante che può divenire l'istante più magico di sempre.
Quegli istanti che hanno il gusto della semplicità come fosse il diamante più prezioso della terra.

Grazie ragazzino di spalle.
Hai avuto la capacità di ricordarmi che la semplicità si misura grazie agli istanti.
Grazie all'arte di tralasciare tutto il superfluo.
Gli istanti che presi uno alla volta sanno di semplicità.
Quell'istante che ha la capacità di far sognare ancora, nonostante tutto.
Che la semplicità si nasconde dentro la bellezza di un paio d'ali di farfalla
A me, a noi. Non resta che crederci.

Ky

giovedì 1 marzo 2018

A lezione di contrasti




Non posso non pensare ai contrasti.
Oggi proprio non riesco a non pensarci.
Il motivo è semplice.
Neve lì, in Italia. Sole, molto sole qui, in Thailandia.
Non dico che preferisco essere qui al caldo.
Forse solo un pò di più rispetto all'essere lì.
Pensandoci sono 5 anni che non vivo il freddo occidentale.
Ma sono anche 5 anni che non assaporo la neve.
Mi manca un pò.
Mi manca il poggiare i passi sul soffice e bianco strato di neve.
Sentire i fiocchi che si sciolgono sulle guance.
Perdere la sensibilità sulla punta delle dita.
Guardare fiocchi che cadono, uno dopo l'altro.
Cadono e si posano.
Si posano e cadono.
Tutto diviene bianco. Non esistono più i colori, almeno per un pò.
Quasi trovarsi vivi in una cartolina d'altri tempi.
Un bianco nero che crea ricordi. 
A volte un pò di nostalgia e malinconia.
Ma un bel bianco nero.
Con tutte le sfumature che ci stanno dentro.
Se fossi lì, ora.
Sarei coperta a multi-strati e credo avrei comunque freddo.
Ma starei per un pò ferma con il naso all'insù a sentire neve.
Semplicemente.
I contrasti della vita sono tanti.
Potrei scrivere di diversi contrasti. 
Amore odio. Pace guerra. Ricchezza povertà. Lavoro disoccupazione. Giustizia violenza. E via di questo passo...
Oggi però ho voglia di bellezza. Quella bellezza che non fa chiudere gli occhi davanti alle difficoltà nostre e dei nostri vicini, no. 
Quella bellezza che ti aiuta ad evadere per alcuni istanti dal difficile compito che richiede il vivere.
I contrasti della vita sono tanti.
Alcuni piacevoli e belli come cartoline da spedire.
Altri più duri da mandar giù. Come avere in bocca un boccone troppo amaro e poco gradevole che di andar giù non ne vuol sapere.
Ma la vita è bella anche per questo.
In fondo, in mezzo ad ogni contrasto ci sta una sfumatura.
Saperlo è un aiuto.
Coglierla un grande dono.
Un pò come ritrovare una vecchia e sbiadita cartolina in bianco nero e, semplicemente, guardandola, trovarsi vivi.
Mi piacciono i contrasti.
I contrasti che cadono e si posano.
Si posano e cadono.

Ky


foto presa da pixabay.com


"Che cosa vuole il mondo da noi?" (Keep calm, goditi il viaggio e passa il favore)

Curioso. Decisamente curioso come un pensiero possa improvvisamente materializzarsi. È successo circa 3 mesi fa, dopo il mio rientr...