martedì 28 novembre 2017

Ignora per essere felice





Comprendere che a volte il proprio modo di agire e reagire,
di fronte a comportamenti, atteggiamenti e parole negative di altre persone
porta solo a peggiorare la propria salute mentale, è già un bel passo avanti.
Lo sto sperimentando ancora una volta in questi giorni tailandesi.
Ma allora che fare?
Come comportarsi?
Continuare a rimuginare? Non sembra un’idea geniale.
Provare ad affrontare la persona di petto? A volte funziona altre volte peggiora ed imbarazza ancora di più la relazione già tesa.

Le relazioni tra persone sono spesso fonte di conflitti,
di battibecchi, di parole gratuite che feriscono e che tendono solo
a rendere i rapporti già tesi ancora più insopportabili.
Capita o sarà capitato di certo a ciascuno di noi di trovarci in situazioni simili
e spesso si agisce per tentativi ed errori, cercando qualla che dovrebbe essere la strada migliore per superare questi gap relazionali che minano il nostro essere in maniera spesso invisibile.

A tal proposito leggevo qualche tempo fa una breve storia che racconta di come
un uomo si avvicinò a Buddha. Senza dire una parola, gli sputò in faccia. I suoi discepoli si arrabbiarono. A quel punto Ananda, il discepolo più vicino, chiese a Buddha: “Dammi il permesso di dare a quest’uomo ciò che merita!”. Ma Buddha si asciugò con calma e gli rispose: “No. Parlerò io con lui”. E unendo i palmi delle mani in segno di riverenza, disse all’uomo: “Grazie. Con il tuo gesto mi hai permesso di vedere che la rabbia mi ha abbandonato. Ti sono estremamente grato. Il tuo gesto ha anche dimostrato che Ananda e gli altri discepoli possono essere ancora assaliti dalla rabbia. Grazie! Ti siamo molto grati!”. Ovviamente l’uomo non credette alle sue parole, si sentì commosso e nello stesso angosciato.

Questo breve racconto ci mostra una parola che a me personalmente
piace poco ma che ho riscoperto molto vera, importante ed utile in
questi 5 anni in Oriente: IGNORARE.

Lo so, sembra una parola negativa e poco piacevole da pronunciare,
eppure se applicata con intelligenza e nelle situazioni davvero necessarie
può essere un ottimo rimedio contro atteggiamenti, parole e comportamenti
che ci tolgono energia, che non ci fanno esprimere al nostro meglio.

Se andiamo a vedere la sua etimologia ed il suo vero significato
possiamo capire che usare questa “tecnica” è come crearsi una difesa
da quelle relazioni interpersonali che ci possono fare male e che necessitano
solo di essere ignorate per farci vivere meglio e in serenità.
Non serve nemmeno distanziare gli altri o distanziarci da loro,
basta solo sapersi proteggere nel miglior modo possibile.
Tutto qua.

Ci sono delle situazioni in particolare da cui è quasi sempre necessario difendersi:

le critiche distruttive

le manipolazioni

le azioni cattive.

Queste sono le principali situazioni che ci tolgono energia
e che minano la nostra salute mentale alterando così
la nostra ricerca di serenità e felicità.

Certo, non è una via semplice da seguire e da praticare,
soprattutto per chi, come la sottoscritta,
tendenzialmente rimugina troppo sugli accadimenti poco piacevoli.
Ma con il tempo è una buona tecnica da farsi amica e da
utilizzare tutte le volte che ci sentiamo attaccati e che abbiamo davvero bisogno
di salvaguardare la nostra interiorità senza cadere in eccessi di rabbia
che portano solo ad ulteriore conflitto.
E non vi crucciate troppo, non state facendo del male a nessuno
attraverso la tecnica dell’ignorare, anzi, se non la mettete in pratica
state facendo del male solo a voi stessi.
È solo questione di .saper accettare che in certe situazioni dobbiamo
mettere noi stessi e la nostra persona davanti a tutto il resto.

Dunque, provare non costa nulla e magari ci si accorge pure che
ignorare può anche aiutarci ad essere persone più felici dentro e fuori.

sabato 25 novembre 2017

Ogni incontro suggerisce una nuova potenziale direzione





I giorni e gli istanti passano
e tra i mille e più pensieri che mi abitano la mente mi ritornano spesso davanti gli occhi
scene e frasi di un film a dir poco geniale:
Cloud Atlas.

In sintesi nel film si intrecciano 6 storie diverse
vissute dagli stessi personaggi che in ogni storia
si trovano ad essere persone nuove e diverse,
ma in qualche modo collegate a quello che
erano nella vita precedente.

Riflettendo è proprio vero  come tutto è connesso,
e non parlo di social, globalizzazione,
video in tempo reale, videochiamate e
compagnia bella.
Mi riferisco ad una connessione molto più profonda
una connessione che si realizza solo attraverso l’incontro con l’altro
ed espressa molto bene da questa frase
di Isaac Sachs, uno dei protagonisti del film:

“La fede, come la paura o l’amore, è una forza che va compresa come noi comprendiamo la teoria della relatività, il principio di indeterminazione, fenomeni che stabiliscono il corso della nostra vita. Ieri la mia vita andava in una direzione, oggi va verso un’altra, ieri credevo che non avrei mai fatto quello che ho fatto oggi, queste forze che spesso ricreano tempo e spazio, che possono modellare e alterare chi immaginiamo di essere, cominciano molto prima che nasciamo e continuano dopo che spiriamo. Le nostre vite e le nostre scelte, come traiettorie dei quanti, sono comprese momento per momento, a ogni punto di intersezione, ogni incontro suggerisce una nuova potenziale direzione”.

Proprio così,
ogni connessione suggerisce una
nuova potenziale direzione.
Ed è quello che ci capita costantemente
nelle nostre quotidianità,
sul luogo di lavoro, in famiglia, tra i banchi di scuola,
in viaggio per il mondo.

Eppure troppo spesso
anche se comprendiamo queste nuove potenziali direzioni
ci ritroviamo come Luisa Rey a chiederci:

“Perché noi continuiamo a ripetere gli stessi errori ogni volta?”

Questo accade perché per crescere,
per evolvere e vivere al meglio le nostre vite
dobbiamo

"fare tutto quello che non puoi non fare…".

E per fare tutto quello che non puoi non fare,
spesso si sbaglia, non si viene compresi,
ci si abbatte e si rinuncia,
si cade e sembra proprio che

“le forze invisibili che fanno girare il mondo, sono le stesse che ci straziano il cuore”

E nella vita reale spesso accade  proprio così,
ma ciascuno di noi è chiamato a fare
quel qualcosa che non può non fare  e
che nessun altro può fare al posto suo.
È il solo modo che abbiamo per essere percepiti
perchè

"Essere vuol dire essere percepiti. Pertanto conoscere se stessi è possibile solo attraverso gli occhi degli altri…".

Ed ancora essere ed essere percepiti
significa che

"La nostra vita non ci appartiene. Da grembo a tomba siamo legati ad altri. Passati e presenti. E da ogni crimine, da ogni gentilezza, generiamo il nostro futuro!"

E concludo queste riflessioni con le parole che  Robert Frobisher
rivolge al suo compagno:

“Sixsmith, salgo i gradini dello Scott monument ogni mattina, e tutto diventa chiaro. Vorrei poterti fare vedere tutta questa luminosità, non preoccuparti, va tutto bene, va tutto così perfettamente maledettamente bene. Capisco ora che i confini tra rumore e suono sono convenzioni. Tutti i confini sono convenzioni, in attesa di essere superate; si può superare qualunque convenzione, solo se prima si può concepire di poterlo fare. In momenti come questi, sento chiaramente battere il tuo cuore come sento il mio, e so che la separazione è un’illusione. La mia vita si estende ben oltre i limiti di me stesso”.

Il nostro compito per continuare ad essere connessi
con il tutto in cui viviamo e con il tutto che
sperimentiamo sta proprio in quella capacità singolare 
di andare oltre le convenzioni, oltre i limite di se stessi.
Solo così saremo davvero persone in grado di Essere e di
Essere connesse con il tutto inseguendo e realizzando
potenziali nuove direzioni.





mercoledì 22 novembre 2017

Che rumore fa la felicità?






Capita a volte di restare dolcemente sorpresi e di vedere trasformata
una giornata simile a mille altre,
in una rivestita di “pace amore e gioia infinita”.

È successo proprio ieri
qui al confine,
a Mae Sot.

E nella testa
e tra i pensieri scorrono come
un piccolo jukebox d’altri tempi
alcune canzoni dei Negrita
che mi aiutano a mettere nero su bianco
le molteplici e colorate emozioni che mi porto addosso.

“il ritorno porta addosso mal di testa e mal d'anima,
nei silenzi ognuno piano fruga dentro di sé.
Porto dentro quei sorrisi, le parole, gli sguardi, i visi
E qualcuno ancora si stupisce del fuoco sacro che ci unisce
Scosse forti dell’anima che nessuno scorderà più!
Che è una cosa rara, che un oceano ci separa
Brindo a voi e a questa vita
Pace amore e GIOIA INFINITA…”.

Già!
Ieri mi sono davvero chiesta
“che rumore fa la felicità”?
E la risposta l’ho trovata in un’altra canzone.

“Insieme, la vita lo sai bene
ti viene come viene, ma brucia nelle vene e viverla insieme
è un brivido è una cura
serenità e paura
coraggio ed avventura,
da vivere insieme, insieme, insieme, insieme”.

INSIEME…
Condividendo attimi di pura bellezza,
insieme a piccoli occhioni sorridenti
e volti luminosi di mamme coraggio
che gioiscono nel vedere la prima carrozzina
per il loro bimbo.
Una carrozzina che non significa solo
maggiore comodità di trasporto
ma anche una quotidianità più dignitosa e semplice
per questi bimbi birmani e le loro famiglie.

INSIEME…
Al professionale e preparato staff di
Burma Children Medical Fund
ed alla fondatrice Kanchana
che ha un’ampia visione del presente e
del futuro per questi piccoli amici.

INSIEME…
Ad altri partners che da vari luoghi
e in vari modi sostengono come noi
di Krio Hirundo Onlus
il progetto “Wheelchairs for Kids”.


Ecco il rumore della felicità:
l’unione, l’essere insieme per uno scopo comune,
uno stato di gioia infinita,
un’interdipendenza naturale
come dovrebbe sempre accadere in ogni contesto.
E capisco come
questa gioia infinita, questa felicità che fa rumore
mi porta ad interrogarmi
e non ci sono parole migliori di
quelle dei Negrita con un altro loro
capolavoro musicale:
Rotolando verso Sud.


“Ogni nome un uomo
ed ogni uomo e' solo quello che
scoprirà inseguendo le distanze dentro se
Quante deviazioni
quali direzioni e quali no?
prima di restare in equilibrio per un po'
Sogno un viaggio morbido,
dentro al mio spirito
e vado via, vado via,
mi vida cosi' sia
Sopra a un'onda stanca che mi tira su
mentre muovo verso Sud
Sopra a un'onda che mi tira su
Rotolando verso Sud
Long way home”.

Già!
Sogno e vivo un viaggio morbido,
un viaggio verso il Sud,
quel Sud che ciascuno di noi rincorre
dentro sé,
e che per attimi infiniti mi fa
ascoltare il rumore della felicità
un rumore che ha il gusto della gioia infinita!
Una gioia infinita che traccia il sentiero
verso la “long way home!”
ovunque essa sia. 

Ky

mercoledì 15 novembre 2017

Il ruolo ha sostituito la persona



Lo confesso:
non sono delusa che la nazionale di calcio maschile italiana sia fuori dai prossimi mondiali.
(E scrivo da ex-sportiva dilettante con discreti risultati cestistici).
Vedo questa eliminazione come una benedizione ed una profonda opportunità!

Certo, anche se non ho seguito l’ultima disfatta calcistica,
essere in Tailandia non mi ha tenuto lontano, ahimè, dalla valanga di
articoli, post, insulti, delusioni, ironici commenti, riflessioni, teorie che questa mancata qualificazione mondiale ha portato con sé.

Sembra quasi peggio del terremoto che ha scosso l’Iran pochi giorni fa,
quasi peggio delle centinai di morti che il Mediterraneo porta con sé,
quasi peggio di…moltissime altre situazioni,
l’elenco è lungo, lunghissimo…fatelo voi.

Insomma una disfatta di Caporetto colossale
che segnerà per sempre la storia del calcio italiano,
ben inteso il Calcio con la “C” maiuscola, quello dei maschi.

Già!
perché tutti gli altri sport di nazionali italiane maschili e femminili di
basket, calcio, rugby e tutto il resto e delle persone diversamente abili  e dell’atletica leggera e
della nazionale paralimpica sono… inferiori!?

Con una sostanziale differenza:
le altre nazionali sportive italiane stanno ottenendo e raggiungendo ottimi risultati
ma pochi ne parlano.
Non fanno notizia, giusto notizie da bar sport di qualche trafiletto sul quotidiano di turno.
Che strano!

Ma nemmeno questo riesce a farmi arrabbiare,
però riesce a farmi riflettere e prendere consapevolezza
di quanto i media, la televisione, i giornali
influenzino persino il nostro essere tifosi,
ovviamente tifosi accaniti verso il calcio maschile.

Non entro nel merito del perché la nazionale ha perso,
non ne ho le competenze,
ma mi permetto di fare una breve riflessione su quello che
è tempo che il mondo calcistico italiano inizi a fare
per ottenere nuovi risulti in futuro.
Questi spunti possono essere utili in realtà per ciascuno di noi.

Sono due le azioni da prendere in considerazione:
il cambiamento necessario e il potere della responsabilità.

Il cambiamento necessario credo sia evidente a tutti, anche ai non addetti ai lavori.
La nazionale va stravolta, con menti e corpi più giovani e freschi,
con nuove tattiche e strategie,
questo perché fa parte della naturale evoluzione di qualunque cosa nella vita,
anche nel mondo del calcio.
Se si vuole ottenere risultati sempre al passo con i tempi,
è tempo allora di cambiamenti,
un po’ come si fa in famiglia con i cambi di stagione,
si sistema nell’armadio l’arredamento invernale,
si fanno le pulizie di primavera e si rivestono i mobili
di tovaglie pulite, di lenzuola fresche e leggere e via dicendo…
insomma si dà aria nuova all’ambiente in cui si vive.

Il segreto è l’EVOLUZIONE,
l’attenzione nel rendersi conto quando una situazione,
una squadra, un evento non funzionano più con i vecchi metodi e schemi,
ma necessitano di una bella ripulita per ripartire da zero e costruire
i percorsi passo passo ed ottenere così gli obiettivi prefissati.

La seconda azione riguarda
il potere della responsabilità.
Temo che la nazionale sia stata investita, da un fantomatico Re Artù,
di un’eccessiva responsabilità nei confronti del proprio paese.
Questo è positivo se si è in grado di prendere la responsabilità
solo per quello che riguarda se stessi:
il portiere ha la responsabilità di parare,
il difensore di difendere la porta,
l’attaccante di mettere la palla in rete,
ciascuno con il proprio ruolo ben definito ma allo stesso tempo
con una buona capacità di flessibilità quando le situazioni lo richiedono.

Eppure in campo ci sono sempre 12 giocatori,
12 uomini normali, senza nessun super-potere,
certo con doti calcistiche spiccate, ma questo non li rende immuni dal peso
delle responsabilità,
quasi dovessero per forza dimostrare a noi italiani che con loro
siamo in una botte di ferro.
C’è necessità di rispolverare un po’ il concetto di UMILTA’.

Stop!
sono uomini, non robot
sono uomini, non invincibili,
sono uomini, dunque fragili come noi:
sbagliano, falliscono, fanno goal,
sbagliano i tiri di rigore, esultano dopo la vittoria,
piangono dopo la sconfitta,
proprio come noi nelle nostre quotidianità.
Quindi è anche in qualche modo colpa nostra, di noi tifosi,
se la nazionale non si è qualificata per i mondiali.

Il ruolo di cui si fanno carico questi giocatori,
non è più solo il ruolo di gioco in campo,
ma il ruolo di cui noi, la società, i mass media,
i social li ha investiti ossessivamente
mettendo troppo spesso in campo la loro sfera privata
che di certo ha influito nel loro senso di responsabilità,
nella loro autostima e nell’immagine che la società gli ha attribuito.

Il gossip è la peggiore arma che ci sia oggi nel mondo,
un’arma che sa annientare piano piano, come un tarlo,
anche l’uomo più potente.

E questo di certo ha intaccato il loro senso originario di responsabilità.
E’ solo attraverso il potere dell’azione collettiva e condivisa che
si riduce  il senso di responsabilità personale.

Quindi sì, il mea culpa lo dobbiamo fare tutti noi insieme a loro,
perché essere una nazione e credere in una nazionale è saper gioire nella vittoria,
saper confortare nella sconfitta, saper essere uniti sempre in ogni caso e
credere che dalla sconfitta non si può che imparare e migliorare.

Ed ora, dopo queste riflessioni,
continuiamo a tifare con orgoglio per le NOSTRE nazionali sportive,
se lo meritano davvero.

E ricordiamoci che una persona non si ammira per il ruolo che ricopre in un
campo da gioco, ma per l’umanità che la rende unica nella vita di tutti i giorni :
il ruolo non fa la persona!











domenica 12 novembre 2017

No Pain? No Gain!




No pain? No gain!

Quest'espressione mi fa venire in mente la pubblicità dove Clooney dice:
Nespresso? What else?!

No pain? No gain! What else?!
Nessun dolore? Nessun risultato! Che altro?!

Ironia a parte, un fondo di verità c’è in quest’espressione d’oltre oceano.
 
A ben pensare, già quando nasciamo, il parto è doloroso per nostra madre,
e lo è pure per noi che stavamo così bene dentro quel liquido caldo e rassicurante,
e BUM, tutto un tratto sentiamo che qualcosa ci spinge fuori,
quasi a non volerci più tenere in quel posto così bello e confortevole,
sentiamo un dolore così forte che ancora prima di venire alla luce sperimentiamo da vicino il morire.
Che trauma e che male,
trovarsi in un ambiente freddo, tra mani sconosciute che ci sballottano da un posto all’altro,
sentendo suoni sconosciuti
e tutto questo per cosa?
Per venire al mondo e per dare ragione al "no pain, no gain"
in questo caso, pain e gain, visto che siamo, a quanto pare, il più bel “risultato” per i nostri genitori
e che dovremmo essere felici di essere giunti in sto mondo benedetto.
Già lo diceva la Bibbia:
la donna partorirà con dolore e l’uomo si dovrà guadagnare la pagnotta con il sudore della fronte.
Certo che come immagine è poco allettante…
Fatemi tornare dentro la pancia di mamma!!!

In questo mondo nessun risultato si ottiene senza un dolore ed una sofferenza.
È un dato di fatto.

E questo lo troviamo in ogni parte del globo, in ogni cultura, religione, in ogni situazione.
Lo possiamo leggere anche nelle biografie di grandi geni o di imprenditori miliardari, di guide spirituali o di presidenti illustri, di sportivi famosi e di scalatori di 8000 mt, , che certo hanno avuto successo e risultati nelle loro esistenze ma a che prezzo?!
E possiamo trovare lo stesso percorso anche nelle vite più modeste e semplici delle persone che ci vivono accanto quotidianamente.
Ma nessuno è stato ed è immune nell’ottenere successo e risultati se non sperimentando e vivendo il dolore e la fatica.
È che tendenzialmente preferiamo vedere solo i risultati ed i successi raggiunti e non il dolore per ottenere
quei risultati, soprattutto se non ci riguardano in prima persona.

Il NO PAIN NO GAIN è come una frase scritta nel nostro DNA e c’è poco da fare,
va accettata così com’è.

Ma senza il "no pain no gain", probabilmente non sapremmo conoscerci più a fondo,
non sapremmo fin dove arrivano i nostri limiti,
non sapremmo quando arriviamo a toccare il fondo dal quale non si può che salire,
non sapremmo che abbiamo delle potenzialità nascoste ed inesplorate che aspettano solo noi
per manifestarsi,
e non sapremmo un sacco di altre cose.
La lista è lunga, ciascuno ha la propria.

Il "no pain no gain" ci mette di fronte alla vita, quella più concreta e reale,
quella che tutti gli esseri umani si trovano ad attraversare
e questo non può essere che un conforto per non sentirci soli e sperduti nel mondo.

Ma cè anche un vantaggio insito nel "no pain no gain".
Possiamo decidere noi il COME vivere il dolore e il COME vivere il risultato.

Nulla nella vita capita a caso,
questo l’ho capito strada facendo
e ho compreso perché nessuno ti fa trovare il manuale d’istruzioni appena nasci,
sarebbe troppo facile e così si rischierebbe
di non conoscersi profondamente,
di non trovare il nostro scopo nella vita,
di non lasciare il nostro contributo al mondo,
di non far uscire quella creatività che ciascuno di noi ha e che è solo nostra, nessun’altro la possiede.

Già, il troppo easy, non fa per l’essere umano,
tendenzialmente l’animale più dotato ed intelligente per incasinare anche gli affari più semplici dell’esistenza.
Ma così siamo, e così ci dobbiamo sopportare e supportare.

No pain no gain,
pain e gain.

La scelta spetta a me, a te, a noi.

Due strade
Due diverse direzioni.

Il "no pain no gain"
che significa una vita piatta
senza troppi intoppi
comoda e vissuta nella propria zona di comfort,
affondati sul divano della propria esistenza che non ci piace
ma che non  vogliamo cambiare
perché in fondo non desideriamo il dolore,
e preferiamo seguire il dolore ed i risultati degli altri
pigiando il telecomando e sgranocchiando pop corn,
con quell’invidia tipica di chi è più interessato alle vite altrui che
alla propria crescita umana, spirituale e di risultati e successi.

Il  "pain gain"
una scelta piena di cadute, di porte in faccia,
di dita puntate contro,
di pugnalate alle spalle,
di notti insonni e in solitaria,
di amici fatiscenti e invidiosi,
ma che aiutano a forgiare i nostri caratteri, a far emergere i nostri talenti,
quelle potenzialità profonde
che aiutano a fare la differenza nella nostra vita
e portano un concreto contributo nella vita degli altri.

No pain? no gain!
What else?!

A te la scelta.








mercoledì 8 novembre 2017

La mappa non è il territorio



“La mappa non è il territorio”…

Non è che abbia mai ben compreso questo modo di dire.

E forse, a quasi 40 anni, potrei abbozzare un’idea spero plausibile su quello che mi fa pensare questa frase.

È quasi come avere tra le mani una meravigliosa mappa del tesoro con una gigante e rossa X a segnare il punto esatto dove scavare per trovare il forziere zeppo di monete d’oro, per poi, in un momento di lucidità, accorgersi che non ci sono le indicazioni fondamentali per arrivare a quella x rossa, gigante ed invitante…od ancora, per poi rendersi conto che ci sono talmente tante indicazioni e percorsi per arrivare alla x che non si sa da che parte iniziare.

Quest’immagine di X, forziere ed isola
(sì perché di solito il tesoro lo si deve per forza collocare in mezzo ad un’isola dimenticata da Dio)

dicevo che quest’immagine mi fa venire in mente un po’ il rapporto tra due persone
(sono dettagli se le due persone in questione sono amici, colleghi di lavoro, fidanzati, sposati, conviventi ecc.).

E’ come se ciascuna delle due disponesse di una mappa del tesoro, la stessa, identica per filo e per segno, ma poi ognuno la legge a modo suo.

Già proprio un bel grattacapo. Chi ascoltare? Chi dei due ha ragione? Chi azzeccherà il percorso giusto per arrivare alla ricca e rossa x?

Probabilmente entrambi, già, proprio così.

"La mappa non è il territorio" per me sta a significare che per quanto la mia mappa sia super dettagliata e la mappa dell’altra persona, che mi accompagna in questo viaggio, sia in egual modo identica e dettagliata come la mia, inevitabilmente io la leggerò in un modo e l’altra persona a suo modo.
Probabile anche che, per arrivare alla stessa rossa X, io scelga un percorso e l’altra persona un percorso diverso, ma comunque inevitabilmente entrambi arriveremmo alla stessa rossa X anche se forse in tempi diversi.

Il “come” percepisco la realtà, è tutto qui il mistero nascosto tra le righe della frase “la mappa non è il territorio”.

Sembra un po’ di essere come Neo, il protagonista del film Matrix, che ad un certo momento si trova di fronte ad una scelta :

 “E’ la tua ultima occasione, se rinunci  non ne avrai altre. Pillola azzurra , fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie e vedrai quant’è profonda la tana del bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità. Niente di più” gli propone Morpheus.

Pillola azzurra o pillola rossa, rimanere nel mondo che si conosce o lasciarsi portare nella vera realtà.

Bhè certo, per Neo è molto più facile, è in un film e può provare di tutto, dunque è ovvio e scontato che decide di buttarsi a scoprire la vera realtà.

Per noi, umani, è leggermente più complicato ma non impossibile.
Abbiamo tutte le carte in regola per cambiare la percezione della realtà, dipende da noi e dalla nostra volontà e voglia di scoprire il nuovo, che forse spaventa, ma forse anche no.

Ritornando al film Matrix Neo dice “mi fanno male gli occhi” e la risposta di Morpheus “perché non li hai mai usati”.

Quante volte vogliamo solo vedere quello che ci fa comodo, quello che in qualche modo non ci costringe ad interrogarci profondamente sul nostro essere qui in questo mondo; ed ancora quante volte pur di non venire coinvolti chiudiamo gli occhi o volgiamo lo sguardo in una direzione più comoda per paura di venire coinvolti in situazioni scomode, che riteniamo troppo impegnative per noi e di cui preferiamo non curarci pensando che tanto ci sarà qualche buon’anima che se ne occuperà, restando così intrappolati nella ruota dello “scarica barile” e perdendo così l’opportunità di uscire almeno per un po’ dalla nostra personale realtà, o zona di comfort per dirla in lingua attuale, e lasciandoci trascinare in una realtà più grande, più universale.

Ed ancora, quante volte ci troviamo a discutere su chi ha ragione, su che strada seguire, su come gestire il tal progetto, e via dicendo senza renderci conto che stiamo solo sprecando tempo ed energia su discussioni che non portano a nulla proprio perché ciascuno rimane delle proprie opinioni, rinchiuso nella certezza della sua realtà e pronto a difenderla a qualunque costo, o quasi, perdendo così l’occasione di creare nuove realtà, magari condivise, che ci facciano arrivare a quella rossa e gigante x dove si nasconde il tesoro che ogni essere umano cerca.

E questo inestimabile tesoro è nascosto dietro tre domande fondamentali: 

chi sei? 

cosa fai? (qual'è la tua vera vocazione)

perché lo fai? ( che contributo vuoi lasciare al mondo)

Abbiamo tutti necessità di una guida, un maestro, di qualcuno che ci aiuti a scoprirci in questo mondo, a capire la vera natura delle cose, a scoprire chi siamo, cosa facciamo e cosa siamo chiamati a fare su questa terra e qual è la nostra vera vocazione, missione o leggenda personale, se preferite.

Abbiamo tutti bisogno di un Morpheus che ci dica:

“Cerco di aprirti la mente, Neo, ma posso solo indicarti la soglia. Sei tu quello che la deve attraversare.”.


I veri “Morpheus” sono coloro che ci danno dei suggerimenti su come dovremmo vivere nel mondo, ma senza imporre nulla, senza chiedere nulla in cambio. Sono coloro che ci aiutano perché hanno raggiunto un livello di consapevolezza maggiore e sono felici di aiutarci nel nostro percorso di vita, rispettando i nostri tempi, ascoltando le nostre lamentele, accettando anche i nostri “no”.
In sostanza lasciandoci liberi di scegliere senza giudicare nel caso dovessimo scegliere la via opposta.

Alla luce di queste riflessioni, assemblate un po’ per istinto, mi rendo conto della fortuna grande che ho avuto e che ho tutt’ora nell’aver incontrato e nell’avere vicino tante e diversificate versioni di Morpheus, ciascuna necessaria ed utile in passaggi più o meno complessi della vita e… di questo ringrazio.

Ricordiamoci le parole di Morpheus:

“Prima o poi capirai, come ho fatto anch’io, che una cosa è conoscere il sentiero giusto, un’altra è imboccarlo”.

Buona ricerca del tesoro!

*immagine presa dal web





domenica 5 novembre 2017

La felicità non è digitale!



Mio  fratello di tecnologia capisce nulla o quasi e, forse, è tra i pochi umani a non avere nemmeno un cellulare, non dico di ultima generazione ma da sempre rifiuta  i cellulari anche quelli di prima generazione tipo preistorico o stile Flinstones.

Odio e ammiro questa sua scelta.

Non la sopporto perché  mi capita ogni tanto di avere bisogno di lui e, tranne nel luogo di lavoro, diventa introvabile. Lo ammiro perché così continua a mantenere vive e vere le relazioni con moltissime persone.
Allo stesso tempo anche la mia famiglia mastica poco di tecnologia. In sintesi la più tecnologica sono io, più che per piacere, per necessità, visto il mio vagabondare in giro per il mondo. Necessità essenziale per dare un riferimento di tracciabilità alla mia famiglia e alle persone più care; un modo inoltre per rendere il mio viaggiare accessibile a molti attraverso l’uso dei social e condividere così pezzi di strada vissuta, lasciando in dono messaggi positivi.

Perché parlo di tecnologia digitale e felicità, è presto detto.

Qui in Thailandia mi capita di vedere praticamente tutti, adulti, adolescenti, bambini e anziani molto pratici e portati nell’uso delle tecnologie anche quelle di ultima generazione.
Certo, questa non è una novità, anche in Italia moltissimi si sono adeguati velocemente a questi aggeggi digitali. Ma la cosa che mi fa impressione qui è che, sia mentre cammino, sia quando mi trovo a cena fuori in qualche locale, praticamente tutti i tailandesi giovani o adulti mangiano con lo smartphone in mano e la loro conversazione è solo virtuale, fatta di sms, whatsapp, emoji e dita che scorrono alla velocità della luce sul profilo facebook …

Inoltre, poche sere fa ho avuto l’occasione di vedere il film di animazione Emoji : accendi le emozioni.
Ve lo consiglio, è davvero ben fatto, divertente, colorato e attuale. Ricco di spunti ed insegnamenti, di cui il più essenziale è proprio ciò che fa, quotidianamente, mio fratello: “untore” di relazioni reali e tangibili!

La dipendenza digitale, è divenuta motivo di studio e discussione e molti hanno iniziato a parlarne e scriverne per dare delle alternative a questo fenomeno dilagante che sta divenendo sempre più un grosso problema se non preso nel giusto dosaggio.
Credo che sia necessario fare dei percorsi di disintossicazione digitale, anche per chi crede di usare poco il cellulare.

Lo smartphone oramai è divenuto parte del nostro corpo, come se la nostra mano avesse un prolungamento di cui non può fare a meno. E se questo prolungamento magari viene a mancare si va nel panico totale, quasi come trovarsi da soli e sperduti nel deserto dei Tartari.

A tal proposito mi permetto di consigliare un libro pratico, ben scritto, con un linguaggio semplice e con consigli, test e suggerimenti da mettere in pratica.
Il libro è “Offline è bello. Il percorso di digital detox per migliorare relazioni, lavoro e benessere”.*

Nel libro tre le varie cose, si parla anche di mindfullness, quella tecnica di meditazione attiva che, riprendendo concetti buddisti e della psicologia scientifica occidentale, mette il focus sul momento presente, sul qui ed ora come unica soluzione per vivere bene, sereni e felici.

Nel mio piccolo, invece, appena ne ho l’occasione ( e qui in Thailandia ne ho moltissime), mi immergo nella natura, staccando dal cellulare e godendo solo della bellezza che mi circonda, respirando a pieni polmoni e concentrandomi solo su me stessa, tutto il resto lo lascio fuori il più possibile.
A ciascuno poi trovare le  modalità migliori per un percorso di digital detox personale. Questo inevitabilmente migliora le nostre relazioni, la percezione di se stessi, il dedicarsi con più attenzione ed entusiasmo ai propri interessi ed alle proprie passioni.

Seneca diceva “Impegniamoci. Solo in questo modo la vita sarà un bene. Cerchiamo dunque che ogni momento ci appartenga, ma non sarà possibile se prima non cominceremo noi ad appartenere a noi stessi”.*

Viviamo in una società in cui apparteniamo alla tecnologia digitale ed  è tempo di riprendersi i propri spazi per stare bene con noi stessi e di conseguenza  con gli altri ed il mondo.
Ricordiamoci che la felicità non si trova rispondendo ad un whatsapp con faccine sorridenti o con pollici all’insù, la felicità quella vera si trova solo liberandosi da tutto ciò che causa stress e dipendenza e riassaporando così il vero incontro con l’altro.

Concludo queste riflessioni personali con una bellissima frase di Roberto Benigni.

La felicità, sì la felicità! A proposito di felicità: cercatela tutti i giorni continuamente, anzi, chiunque mi ascolti ora si metta in cerca della felicità. Ora, in questo momento stesso perché è lì, ce l’avete, ce l’abbiamo, perché l’hanno data a tutti noi. Ce l’hanno data in dono quando eravamo piccoli. Ce l’hanno data in regalo, in dote, ed era un regalo così bello che lo abbiamo nascosto come fanno i cani con l’osso quando lo nascondono. E molti di noi l’hanno nascosto così bene che non si ricordano dove l’hanno messo, ma ce l’abbiamo, ce l’avete. Guardate in tutti i ripostigli, gli scaffali, gli scomparti della vostra anima, buttate tutto all’aria, i cassetti, i comodini che c’avete dentro, vedrete che esce fuori, c’è la felicità. Provate a voltarvi di scatto magari la pigliate di sorpresa, ma è lì. Dobbiamo  pensarci sempre alla felicità, e anche se lei qualche volta si dimentica di noi, noi non ci dobbiamo mai dimenticare di lei fino all’ultimo giorno della nostra vita”.*

 *Offline è bello. Il percorso di digital detox per migliorare relazioni, lavoro e benessere 
di A.Prunesti e M. Perciavalle edito da FrancoAngeli

"Che cosa vuole il mondo da noi?" (Keep calm, goditi il viaggio e passa il favore)

Curioso. Decisamente curioso come un pensiero possa improvvisamente materializzarsi. È successo circa 3 mesi fa, dopo il mio rientr...