lunedì 16 luglio 2018

"Che cosa vuole il mondo da noi?" (Keep calm, goditi il viaggio e passa il favore)




Curioso. Decisamente curioso come un pensiero possa improvvisamente materializzarsi. È successo circa 3 mesi fa, dopo il mio rientro dall'ennesimo viaggio tailandese. Lì ogni anno vivevo con qualche gatto che decideva di passare tempo con me e Nadia. Ogni volta poi la ripartenza era segnata da qualche senso di colpa legato al dover separarsi da amici birmani e tailandese ed anche dai tanti amici pelosi. Poche settimane dopo il ritorno a casa ricordo di aver detto a Nadia che stavo meditando di prendere un gatto, ma non un gatto qualunque, un gatto che mi sarebbe piaciuto portare in giro con me o che perlomeno mi seguisse in brevi tragitti. Ma era solo un pensiero. Con la vita di corsa che faccio, da quando sono tornata, forse avere un amico a quattro zampe per casa non è proprio il top.

Eppure non so da dove, non so come e nemmeno perchè, è arrivato lui. Lo vedevo gironzolare nei dintorni del quartiere dove abito. Magro, timoroso, inavvicinabile, affamato. Così un giorno, come i tanti soliti altri, ho deciso di dargli una scatoletta di tonno.
Amore a primo boccone. Non verso di me certo, verso il tonno di sicuro.
Da qui ha iniziato a seguirmi fin davanti l'ingresso di casa. Con le sue tempistiche feline molto zen, s'intende. Una volta aperta la porta con molta disinvoltura si è diretto verso le scale, poi sala/cucina, camera da letto, terrazzo ed infine è approdato con un bel balzo sul divano.
Okey. Il gatto si è scelto casa ed umano.
Il problema del "lo tengo o non lo tengo" non mi ha sfiorato nemmeno per un attimo. Per lui era evidentemente scontato, senza possibilità di replica alcuna.
Il dilemma poi del nome. Ma è maschio o è femmina?
Impossibile capirlo vista la quantità di pelo e la confidenza ancora da instaurare.
Butto lo sguardo sul tavolo dove c'è più disordine che altro, e mi soffermo sul titolo del libro del famoso tennista Andre Agassi. Open, il gatto lo chiamo Open.
Poco importa se è maschio o femmina, sta bene in entrabi i casi.
Ed Open sia.

Alla luce di questo incontro non sono divenuta una fervente credente della legge di attrazione che tanto scalpore e tanti bum ha fatto in questi anni. Credo più che altro alla necessità d'incontrarsi e di lasciarsi avvicinare. A come ci siano situazioni inevitabili ed inamovibili da cui è d'obbligo passare. Perchè dietro c'è sempre un insegnamento da cogliere. Perchè sotto c'è un motivo che spesso non è così luminoso, direi più che altro ombroso, ma che volendo si può far emergere. Perchè probabilmente di quell'incontro abbiamo bisogno. Perchè nella vita ogni cosa, ogni situazione, ogni trovarsi, vanno colti ed accolti. Perchè la vita, per quanto la mettiamo sotto sopra ogni 2x3, ha bisogno di significato. Un pò come i famosi treni che passano e che si dice una volta persi non tornano più. Ci credo poco. Credo di più ai treni che passano di continuo, ciascuno con un qualcosa di nuovo e diverso da scoprire. E se si perde pazienza. Non era semplicemente il momento. Ripasserà, prima o poi.
Ecco, con Open sta succedendo proprio questo. Ogni giorno lui scopre qualcosa di me, io scopro qualcosa di lui. Lui insegna qualcosa a me, ed io bhè... lo nutro, lo coccolo e...sì insomma lui comanda più che altro. Ma la compagnia, l'affetto che regala, i pensieri che mi ispira mentre combina qualcosa dentro e fuori casa e le risate che mi strappa sono impagabili.

Da quando c'è Open nella mia vita mi torna spesso in mente il film Un sogno per domani tratto dal libro La formula del cuore di Chaterine Hyde, che si basa su una storia vera.
Nel film Kavin Spacey ricopre il ruolo di un professore di scienze sociali un pò alternativo e che dà compiti in classe altrettanto alternativi.
Tra i vari compiti chiede agli alunni di trovare il loro modo per rendere il mondo migliore attraverso la domanda "cosa vuole il mondo da noi?".
Un ragazzino, Trevor, più alternativo degli altri e dello stesso professore, comprende che solo compiendo azioni buone il mondo può essere un posto migliore e s'inventa il "passa il favore". In sostanza Trevor spiega che

"occorre fare una buona azione per tre persone, una cosa che sia importante per loro, che le sia utile sul serio, a patto che però le tre che ricevono il favore promettano di fare altrettanto per altre tre persone...".

Ora, non serve che per forza si compia una catena così. Forse sarebbe un pò troppo utopistico, soprattutto oggi. Ma nella nostra quotidianità, tra le mura domestiche, nei luoghi di lavoro, a scuola, nello sport, in viaggio è sempre possibile mettere in atto il "passa il favore".

E la vita, le relazioni, gli incontri dovrebbero essere un pò così. O simili.
Chiedersi "che cosa vuole il mondo da noi?" può essere un buon punto di partenza, un ottimo trampolino di lancio.
Una sorta di continuo passa il favore in cui nessuno ci rimette, ma tutti ci guadagnano un qualcosa, quel qualcosa che spesso fa la differenza. E così ci si sceglie per stare insieme ed abbozzare nuovi percorsi di vita, per condividere progetti lavorativi, per confrontarsi su idee e passioni, per farsi quattro sane risate e per qualunque altro motivo si voglia.
Perchè è insieme e attraverso le azioni buone che si cresce. Insieme che si diventa migliori. Insieme che cambiano le prospettive di vita, i pensieri, le parole, i silenzi, le azioni. Insieme che il significato del vivere assume spessore.
Alla fine, insieme è sempre meglio che da soli. In tutti i casi, o quasi.
E come mi fa intendere Open: keep calm and goditi il viaggio (e se passi il favore mi fai un favore)!


Ky


martedì 10 luglio 2018

Non dire al mondo di essere una rockstar. Suona caxxo!




Viaggiando sono cresciuta molto. Molto più rispetto alla Chiara che ero s'intende.
Ho scoperto molto del mondo, di me.
Ho scoperto quanto è necessario riuscire a creare qualcosa con quello che ci rimane tra le mani.
Già. Perchè spesso la vita prende direzioni che non avevamo messo in conto.
Già. Perchè la vita si crea di solito partendo da dove si è, con quello che si sa e con quello che si ha a disposizione.
Tutti (o quasi), anche i più famosi e grandi personaggi, sono partiti da qui.
Il punto di partenza spesso è simile. Il modo per arrivare a destinazione cambia.
Resta sempre e comunque la fatica per arrivare lì. Proprio lì dove desideriamo.
Resta il fatto che la vita non è mai facile. Non sempre almeno.
Resta il fatto che la vita spesso assomiglia al violino di Itzhak.

E non conscevo la storia del violinista Itzhak Perlman.
18 Novembre 1995. Esibizione al Lincoln Center di New York.
Entra in scena. Con lentezza attraversa il palcoscenico. Non per vantarsi ma perchè per lui fare quel breve tragitto è una sofferenza. La poliomelite che lo colpì da bambino lo costringe a camminare con rinforzi alle gambe e a sorreggersi con le stampelle.
Nessuno fiata in platea. Tutti restano in attesa.
È un famoso violinista. L'attesa non è un peso per i presenti.
Arriva a centro palco. Si siede. Poggia le stampelle e toglie i rinforzi alle gambe.
Recupera il violino. Lo poggia tra spalla e mento. Suona.
Un rito ormai noto agli appassionati di musica.
Eppure la vita non sempre va allo stesso modo.
Non sempre la scena si ripete come un copine infallibile.
Accade proprio anche a Itzhak.
Qualcosa non funzionò. Una corda si ruppe. Un rumore chiaro e secco.
Per tutti la cosa più sensata da fare era poggiare il violino inutilizzabile e prenderne un altro.
Invece no. Itzhak chiuse gli occhi. 
Secondi che parevano eterni per chi era presente.
Fece cenno al direttore d'orchestra di riprendere la musica da dove si era interrotta.
Riprese a suonare. Suonò un violino con sole tre corde.
Suonò con intensità, passione e potenza tale che nessun rumore si levò dalla sala. Nessun fiato.
Per chi s'intende di musica, sa che tentare di suonare una sinfonia con sole tre corde è impossibile.
Si lo sa. Lo sappiamo. Lo sapeva anche Itzhak.
Ma Itzhak sapeva anche che non voleva saperla questa nozione basilare. Si oppose che fosse così.
E suonò in modo tale da far uscire dalle tre corde suoni e melodie nuove. Affascinati. Incantevoli. Potenti.
Finita la performance nessuno osava fiatare in platea.
Fino a che uno ad uno si alzarono in piedi rapiti, applaudendo con mani e cuore.
Itzhak si terse il sudore dalla fronte. Sorrideva. Per calmare la platea fece un cenno con l'archetto e disse una sola cosa:
"Sapete, talvolta è compito dell'artista scoprire quanta musica può ancora creare con ciò che gli è rimasto".

Ky



martedì 3 luglio 2018

Paure, cambiamenti, scopo e dintorni




Ci sono diversi tipi di libertà e ci sono parecchi equivoci in proposito.
Il genere più importante di libertà è di essere ciò che si è davvero.
- Jim Morrison -

Quando scrivi sei tu che decidi quello che succede. Il cosa, il come, il perchè, il quando, il chi, il dove.

Eppure non è mai facile iniziare a scrivere. Almeno non per me. È vero anche che scrivo da tanto tempo che non saprei nemmeno dire da quanto. Eppure fino a circa 9 mesi fa scrivevo solo per me o per qualcun altro, una sorta di "ghostqualcosa".

Fa paura scrivere. Fa paura scrivere e mettere in piazza le proprie parole, le proprie idee, i propri pensieri. I perchè sono i soliti di sempre: paura del giudizio, paura di dire cose banali e stupide, paura di scrivere male, paura di non venire calcolati nemmeno di striscio, paura di...

Scrivere è come viaggiare. Il viaggio comporta inevitabilmente un cambiare, un modificare rotte e percorsi, un continuo modificare ed adattare se stessi all'incerto, al non conosciuto. Ed il viaggio si può affrontare in due modi. Guardando direzione specchietto retrovisore per vedere da dove si arriva perdendosi però il meglio. Oppure godendo e meravigliandosi della strada davanti per lanciarsi così verso nuove esperienze e dare uno spessore diverso al futuro. Ecco scrivere è un pò la stessa cosa e - come ogni cosa - comporta un cambiamento. Cambiare fa paura. Deve far paura. È un bene. Una grande occasione da non sprecare.


Per imparare
una lezione
nella vita
bisogna superare
una paura.
- W. Emerson -


Sosteneva questo il filosofo americano Waldo Emerson. Sapeva che ci sono svariati modi di superare le paure e ciascuno è chiamato a trovare il suo modo. Per lui si riassumeva nel pensare poco alle cose e nel cominciare a fare.

Forse è capitato anche a me così. Una sorta di urgenza di dirmi e dire. Credendo e sperando di essere utile ad altri ma anche a me. Così ho iniziato a scrivere un blog. Di quelli semplici, nulla di troppo complicato gestionalmente e tecnologicamente parlando. Eppure, ancora una volta, si ripresenta alla porta la paura, e fa paura. Ho scritto il mio primo post e non riuscivo a cliccare sul tasto "PUBBLICA" in alto a destra. È rimasto in standby per molti mesi. Avevo troppo timore, troppi se, troppi ma che vincevano su tutte le prove e le tesi che tentavo, invano, di portare a mio favore. Un'arringa persa ancora prima di cominciarla. Prospettiva poco allettante e totale sfiducia.

E poi, non so come, non so bene perchè, ho cliccato su quel pulsante ed ha funzionato. Ero online. Ero nel mare sconfinato di internet. E dovevo tentare di non affondare, di non perdermi. Ma non volevo nemmeno diventare dipendente da like, visualizzazioni e robe del genere. Dovevo (e voglio) fare parte del processo di cambiamento che "la crisi" ha portato inevitabilmete a galla. E da qui non si scappa. Lasciare o prendere. Stare fermi o lanciarsi nel vuoto. Non scrivere o scrivere. Ho scelto la seconda opzione.

In realtà il perchè lo conoscevo. Dovevo solo decidermi a far uscire allo scoperto il come. Ed il come è stato ed è attraverso la scrittura.
Questo solo per dire che non è di certo facile, ma è sicuramente possibile cambiare. Che cambiare fa rima con fare. Che tra dire e fare non c'è di mezzo nessun mare, c'è di mezzo più che altro lo scopo.

Se c'è lo scopo tutto è più chiaro. No, non più facile. Solo un pò più chiaro. Forse con pezzi di strada che si vedono un pò meglio di prima e su cui si sceglie di posare le scarpe per macinare chilometri. Che poi lo scopo c'è. Tutti ne hanno uno. Solo che a volte si fatica a trovarlo, si diverte a giocare a nascondino o noi ci divertiamo a giocare a nascondino con lui. E torna la paura. I dubbi ed i timori. L'ansia da prestazione e da web.

Ma provare paura non significa essere codardi o falliti. Significa essere consapevoli che è tempo di tirar su le maniche della camicia e darsi da fare. Acchiappare lo scopo e renderci così conto che nella vita spesso è meglio stare S-comodi piuttosto che comodi. Così si hanno più possibilià di vedere e toccare nuove porte che si aprono, di guardare vecchie paure che si tengono più a bada, di entrare in relazione con altri tizi come noi e di accorgerci che in fondo non siamo soli, non siamo gli unici che.
Di svegliarsi ogni mattina ed essere felici. Non più sicuri o più ricchi.
Più felici, almeno un pò.


Quando hai paura di qualcosa
prendi bene le misure
e ti accorgerai che è poca cosa.
- Luciano De Crescenzo -


E le misure si prendono solo se ci si dà da fare. Se ci si mette in gioco. Se si decide che il proprio scopo è più importante di qualunque paura, di ogni ostacolo, di qualsiasi problema. Quando il proprio scopo ci fa svegliare ogni mattina non più sicuri o più ricchi.

Solo un pò più felici. 
Allora ne vale la pena "essere ciò che si è davvero".


Ky

"Che cosa vuole il mondo da noi?" (Keep calm, goditi il viaggio e passa il favore)

Curioso. Decisamente curioso come un pensiero possa improvvisamente materializzarsi. È successo circa 3 mesi fa, dopo il mio rientr...