lunedì 25 giugno 2018

Password: accontentarsi (di essere persone buone)




Quante volte capita di fermarmi e di chiedermi chi sono.
Se guardo i vari social ogni giorno vedo gente che è qualcuno, che ce l'ha fatta, che almeno così dallo schermo pare felice.
Se esco dalla porta di casa incontro ancora chi sembra essere felice, chi sembra sapere chi è.
E così guardo me, la mia vita, i viaggi compiuti fin qui, le persone incontrate, le esperienze vissute. 
Ho molte più domande per la testa che risposte.
Molti più pensieri incerti che certezze.
Molte più paure che sicurezze.
Eppure sono qui, comunque serena, comunque quasi certa che va bene così.
Va bene quello che sono, quello che ho la fortuna di avere, almeno oggi.
Domani è un altro giorno e si vedrà.
E ripenso alle parole di Alex Zanardi, o meglio quelle che un giorno il figlio gli rivolse:
"Eh, tanto io non sarò mai famoso come te".
E giustamente Zanardi padre si interroga sul "come spieghi ad un ragazzino, in modo convincente, che non è importante? Che conta soprattutto provare ad essere una brava persona?".
Già. Come si spiegano queste cose?

Ricordo che in uno dei miei viaggi tailandesi lessi un racconto che oggi torna utile e che ritengo buona cosa condividere.

C'era una volta un bellissimo giardino, con alberi e fiori di ogni tipo, meli, aranci e rose. Tutti felici e soddisfatti. C'era solo felicità in quel giardino, tranne che per un albero che era molto triste. Il povero albero aveva un problema: non sapeva chi fosse!
"Ti manca la concentrazione" gli disse il melo "se davvero ti impegni, puoi fare mele deliziose. Guarda com'è facile".
"Non ascoltarlo" intervenne il cespuglio di rose "e guarda quanto siamo belle noi!".
L'albero disperato provò a seguire ogni consiglio. Cercò di produrre mele e far sbocciare rose ma, non riuscendo, a ogni tentativo si sentiva sempre più frustrato.

Un giorno un gufo arrivò nel giardino.
Era il più saggio di tutti gli uccelli e vedendo la disperazione dell'albero esclamò "Non ti preoccupare. Il tuo problema non è così serio. È lo stesso di tanti esseri umani! Ti darò io la soluzione : non passare la tua vita ad essere ciò che gli altri vogliono tu sia. Sii te stesso. Conosci te stesso e per far ciò ascolta la tua voce interiore". Poi il gufo se ne andò.

"La mia voce interiore? Essere me stesso? Conoscere me stesso?" l'albero disperato pensava tra sè e sè alle parole del gufo quando all'improvviso comprese. Si tappò le orecchie e aprì il suo cuore e sentì la sua voce interiore che gli stava dicendo "non darai mai mele perchè non sei un melo e non darai mai fiori ogni primavera perchè non sei un cespuglio di rose. Tu sei una sequoia e il tuo destino è crescere alto e maestoso. Sei qui per offrire riparo agli uccelli, ombra ai viaggiatori, bellezza al paesaggio! Tu hai questa missione. Seguila!".

A queste parole l'albero si sentì forte e sicuro di sè e cessò ogni tentativo di diventare qualcun altro ed esattamente quello che gli altri si aspettavano da tutti. Solo da quel momento il giardino divenne completamente felice.

Albert Einstein diceva che "tutti sono geni. Ma se giudichi un pesce in base alla sua capacità di arrampicarsi su un albero, lui vivrà tutta la sua vita pensando di essere stupido".

Provare ad essere chi si è. Senza giri di parole. Senza sprechi inutili di energia in ciò che non ci appartiene. Senza dover essere la brutta copia di altri, spesso dei propri genitori che magari ricoprono ruoli lavorativi importanti e di prestigio.
Essere se stessi al proprio meglio. 
Essere brave persone. Persone buone.
Una sfida come tante nella vita.
Forse questa è la sfida più avvincete ed appasionante in cui possiamo imbarcarci.
Fa paura. Fa tremare le gambe.
Fa andare in tilt pensieri e credenze. Fa andare contro corrente.
Fa sentire anche soli a volte, messi in un angolo con la testa tra le mani.
Ma fa crescere. Fa diventare sè stessi, la miglior versione possibile, l'unica versione su 7 miliardi di individui. Mica male direi!
Forse ne vale la pena. Credo ne valga davvero la pena.
Accontentarsi di essere una sequoia invece che un cespuglio di rose o un albero di melo.
Non è una brutta parola "accontentarsi" .
È una parola buona se presa nella prospettiva di accettare chi siamo, di mostrarlo agli altri e di provare giorno dopo giorno a migliorarsi accontentandosi di essere semplicemente sè stessi.

Ky






mercoledì 20 giugno 2018

Tutto in uno zaino




Lo zaino è posato nell'angolo, quello di sempre. È fermo lì da metà Marzo. Sta prendendo polvere. Dovrei coprirlo probabilmente. Eppure non mi viene da compiere questo gesto. Forse perchè preferisco darci uno sguardo ogni volta che mi capita di passarci accanto. Forse perchè è una specie di mappa di ricordi, emozioni, incontri, esperienze che ho avuto la fortuna di compiere soprattutto negli ultimi sei anni. E lo zaino da sempre è simbolo del mettersi in viaggio. Che sia per un pic nic fuori porta. Che sia per scalare l'Everest. Che sia per recarsi a scuola. Che sia per partire alla ricerca di significati altri, culture diverse. Che sia per qualunque motivo, lo zaino è una sorta di casa mobile in cui si rinchiudono i propri effetti personali ed in cui spesso si tenta di rinchiudere anche un pò di affetti, che sembrano indispensabili ancore di salvataggio lungo i percorsi così incerti ed imprevedibili del viaggiare. Si parte per l'incerto mettendo sulle spalle un pò di quelle certezze che si crede di possedere. In verità poi strada facendo tutto sfuma, tutto muta, tutto si trasforma. Anche tu cambi. È inevitabile. Conseguenza naturale di chi decide di mettersi in viaggio. I motivi sono i più disparati, ciascuno ha il proprio. La sola certezza è che si viaggia partendo sempre dal sè per poi, si spera, arrivare a quel noi che amplifica i significati del viaggiare.
Ogni volta che si avvicinava il tempo della partenza iniziava la lista delle cose da portare e quella delle cose da lasciare a casa. Confesso che la lista delle cose che ritenevo indispensabili avere con me, era sempre esageratamente lunga. E così ogni giorno mi capitava di aggiungere qualcosa a tutto quello che già era pronto sopra il letto per essere poi infilato nello zaino.
Il primo anno del mio viaggio verso Oriente ho riempito e disfatto lo zaino una infinità di volte. Metti e togli. Togli e metti. Metti e togli. Toglie e metti.
E così perdevo ore di tempo preziose per altri e per altro.
La fortuna è che gli zaini hanno una capienza limitata, oltre la quale non si può proprio andare. E così lungo questi sei anni ho imparato a portare solo il necessario lasciando a casa i vari ed inutili "just in case".
Lo zaino comunque è stato sempre fedele amico, necessario ed indispensabile in molte occasioni. Un amico inanimato certo, ma che ha concesso a me e Nadia di trasportare dall'Italia alla Thailandia parecchi capi di vestiario per i bambini birmani. Grazie allo zaino siamo riuscite a trasportare in scooter centinaia di quaderni e libri di testo per la scuola che sostenevamo. Medicinali e kit di primo soccorso per la gente di un villaggio al confine thai-birmano. Lo zaino mi ha sempre accompagnato anche in quei viaggi non proprio così legali in cui si doveva attraversare il fiume di confine con una barchetta e con la scorta militare per raggiungere la sponda birmana. Viaggi sempre spinti dalla volontà di compiere azioni buone, di portare aiuti concreti. Ed ancora lo zaino mi e ci ha accompagnato in quei viaggi "into the wild" che ogni tanto si riusciva a fare. Zaino che diveniva valigia viaggiante ed anche "appendiabiti" con tanto di mollette per consentire a reggiseni, slip, asciugamani e t-shirt di asciugare. Zaino che mi ha sempre consentito di fare incontri di ogni sorta.
Comunque sia, l'ultima volta che ho fatto lo zaino per la Thailandia ho infilato più libri che vestiti.
Ma questo si impara solo facendone esperienza. Solo mettendosi in viaggio.
E come scriveva Sebastiano Zanolli nel lontano 2012:
"Viaggiare implica novità, novità implica incertezza, incertezza implica rischio, rischio implica pericolo. Pericolo anche di fare i conti con se stessi e le proprie debolezze e l'incapacità di lasciare andare il di più, il conosciuto comodo anche se inutile.
Il viaggio ti chiede di accettare tutto ciò e tutta la gente che incontrerai, di abbandonare molto di ciò che credi di essere, e molti che credevi indispensabili. Altrimenti non servirà andarsene.(...).
Ecco perchè chi viaggia diventa resiliente.
Chi viaggia è capace di vedere l'infinitamente grande in ogni piccolo passo.
Per poi ritornare a casa.
Per poi ripartire".
Non penso di avere smesso di viaggiare. Magari per un pò non metterò lo zaino in spalla, non dovrò fare varie liste pre-partenza, eppure mi sento anche adesso in viaggio, perchè una volta che inizi a viaggiare come una volta che impari a sognare – come cantano i Negrita - poi non smetti più.

Ky



martedì 12 giugno 2018

Che ci sto a fare? A volte un sasso ce lo può insegnare




Che ci sto a fare?
Che ci sto a fare nei vari profili social? Che ci sto a fare in quel tal posto di lavoro? Che ci sto a fare in situazioni più o meno scomode? Che ci sto a fare insieme a quel tizio/a? Che ci sto a fare con il blog? Che ci sto a fare con lo scrivere? Che ci sto a fare dentro questo progetto?
Una valanga di "che ci sto a fare?" a cui cercare risposte, soluzioni, alternative, vie di fuga o significati vari.
Ieri mi è arrivato un messaggio inatteso. Una persona conosciuta nei vari social, un pò di tempo fa, mi chiede se gli faccio avere il mio indirizzo di casa così che possa inviarmi un libro scritto di suo pugno. Una bellissima sorpresa, soprattutto per chi come me ama i libri, adora leggere.
Che poi mi ritrovo molto spesso a farmi la domanda "che ci sto a fare?", domanda che mi aiuta a capire il senso di quello che vivo, delle situazioni in cui mi ritrovo per scelta o meno, del lavoro che svolgo, dello scrivere, del relazionarmi con.
E ricordo un racconto che vede come protagonisti un uccellino ed un sasso.

C’era una volta, in un inverno freddissimo, un uccellino che volava su un campo innevato.
Avendo le zampette piene di neve cercava un posto su cui appoggiarsi.
Dall’alto sembrava che tutto fosse ricoperto di neve.
Scendendo più in basso, però, si accorse che c’era una pietra che ne era priva.
Allora l’uccellino si avvicinò e chiese al sasso: “Scusami, sono infreddolito e ho le zampette piene di neve, posso poggiarmi su di te per qualche istante?”
Il sasso lo guardò e subito disse “Ma certo!”.
L’uccellino si posò, si asciugò le zampette e dopo qualche minuto riprese il viaggio.
Nel ripartire disse alla pietra: “Grazie, sei stato veramente gentile, eri l’unico su cui potevo poggiarmi. Ti sarò sempre debitore”.
Ma il sasso rispose: “Grazie a te! Ora non mi chiederò più che ci sto a fare”.


Capita a tanti di non sapere che ci stiamo a fare o cosa stiamo combinando in varie situazioni di vita. Forse siamo un pò come il sasso del racconto. Un sasso che non sa bene quale sia il significato del suo essere in quel determinato posto e che lo scopre solo grazie ad un uccellino vagabondo, infreddolito e gentile.
A volte sappiamo chi siamo, cosa stiamo facendo, perchè e come stiamo facendo quella tal cosa. Altre volte invece proprio non ci capiamo più nulla, restiamo lì senza risposte valide e convincenti perchè magari qualcuno non ci ha capiti o ci ha criticati o qualsiasi altra cosa. E poi succede che arriva qualcuno, un amico, la tua compagna, i tuoi figli, persone sconosciute che si avviccinano, ti chiedono di potersi appoggiare per pochi istanti accanto a te e attraverso atti di gentilezza e bontà ti aiutano a comprende il significato del proprio personale "cosa ci sto a fare?".
E questo essere presenti, vicini, questa voglia di condividere e di incontrarsi fa tutta la differenza del mondo. Proprio come un sassolino.

Ky







sabato 9 giugno 2018

Adattati, se vuoi ripartire.




A lavoro ieri sera. Nessun "sparecchia la tavola, apparecchia la tavola".
Più che altro a lavoro per lavare i piatti. 
Non i miei. Quelli degli altri.
Che poi poco importa se sono miei o degli altri. Il dato di fatto è che sono sporchi e vanno lavati, tirati a lucido, lasciati asciugare e rimessi lì in pila uno sopra l'altro per il prossimo turno, per la prossima ripartenza.
E mentre toglievo via i residui di sporco più o meno impegnativi, pensavo a come è necessario sapersi adattare in base a quello che scegliamo di vivere, alle esperienze che decidiamo di approfondire.

"Vivere e stare al mondo necessita di progressivi adattamenti,
incompleti, parziali, temporanei"
- Paolo Ragusa -

Adattarsi. Non adeguarsi (che ha il sapore della lamentela, della chiusura, del rifiuto al cambiamento). Adattarsi come fanno le radici degli alberi, che cercano la via migliore nel terreno ma il terreno non è sempre soffice, morbido ed accogliente; quasi sempre ci sono sassi, ostacoli e fatica. 
Eppure c'è sempre una via. Sempre.
Perchè la capacità di adattarsi "nel vivere, nelle relazioni, nella ricerca della felicità" ha come significato la capacità e la presa di coscienza di fare posto anche al limite, agli insuccessi, all'infelicità, alla fatica.
Una tensione continua verso il meglio passando per il difficile, l'incerto, il non soddisfacente.
La sola via per avanzare verso tutti i nostri piccoli e grandi progetti di vita.
Una costante e progressiva costruzione di sogni, desideri, progetti ma anche di accettazione di paure, dolori, solitudini, cicatrici che aiutano a crescere.

Adattarsi significa anche avere la capacità di modificare la rotta del proprio viaggiare, interiore ed esteriore. Avere la capacità di "stare nello scarto che abbiamo scoperto e utilizzarlo come ripartenza", come nuova possibilità creativa.
Come trovarsi tra le mani un piatto bianco, tirato a lucido e pulito che aspetta di nuovo di essere riempito, non solo di belle pietanze da vedere, anche di buon cibo da assaporare.

Ky



lunedì 4 giugno 2018

Strade e fossati.




Credo di aver percorso strade di ogni genere e con diversi mezzi in questi 40 anni.
Strade sterrate. Di montagna. Vie ferrate.
Strade travestite da campi di basket.
Strade larghe, così larghe da non vederne il capo opposto.
Strade strette, talmente strette che a mala pena ci passava il mio corpo.
Strade d'asfalto sotto il sole cocente d'Oriente.
Di terra e fango e con buche profonde da schivare.
D'erba e foglie secche piacevoli da calpestare e far suonare.
Leggevo non so più dove, non so più quanto tempo fa che "tutte le strade portano ad una scuola".
Ed in effetti da sempre si dice che la strada è maestra di vita. Una maestra severa e dura molto spesso, altre più piacevole ed amorevole.
La strada però troppo spesso viene interpretata in modo negativo con espressioni che la rendono un posto da poco di buono: gergo da strada, ragazzi di strada, donne da strada, vita da strada...
come se lì fuori, fuori dalle nostre strade reali o interiori, ci fosse un mondo parallelo che respira e tenta di vivere alla meno peggio.
Eppure tutti prima o poi ci troviamo in mezzo ad una strada.
E forse oggi la crisi è un ottimo specchio di questo.
Letteralmente parlando per alcuni, metaforicamente parlando per altri.

Strada come ultima spiaggia oppure opportunità di incontri, di situazioni che possono succedere, che si possono far accadere.
Strada da percorre, su cui riposare a volte, su cui posare fardelli e lasciare zavorre, su cui poggiare passi e ricerca di significati, su cui cercare fortuna o senso.
Strada. Strade. Di ogni tipo, di ogni dimensione e lunghezza. Strade appena asfaltate e rimesse a nuovo. Altre colme di impefezioni che hanno inciso sul percorso.
Strade su cui far perdere le proprie tracce magari per rigenerarsi o per ritrovarsi.
Strade da cui uscire perchè è tempo di imboccarne altre o di tracciarne nuove.
Partendo da zero.

Strade che sembrano un pò come i fossati, quelli che un tempo proteggevano castelli e ville antiche, quelli che oggi si ritrovano ai lati delle strade, lungo i campi coltivati, lì pronti a donare acqua per irrigare terra e sementi. Fossati che vanno lasciati così come sono. Così con la loro naturale predisposizione a ricevere e donare acqua. Acqua che deve scorrere per far in modo che tutto il fango, la sporcizia che la rende torbida, fluisca il più a sud possibile, lasciando così intravedere quei desideri e quelle speranze che ogni uomo necessita di portare a galla, di mostrare ad altri, a sè stessi.

Strade e fossati. Fossati e strade.
E così solo viaggiando, solo mettendosi per strada si possono incontrare altri come noi.
In cerca di senso.
In cerca di opportunità.
In cerca di altri con cui costruire strade. Insieme.

Così il significato della vita diventa più grande. Sicuramente difficile. Certamente condiviso.
Eppure ne vale la pena. Vale sempre la pena incontrarsi e soffermasi almeno per un pò con i tanti altri che credono nella strada come opportunità e ricerca "delle cose come stanno: quelle cose che consentono ad altre cose di essere più umane, più vere e di avere un senso" (Giuseppe Vico).

Ky



"Che cosa vuole il mondo da noi?" (Keep calm, goditi il viaggio e passa il favore)

Curioso. Decisamente curioso come un pensiero possa improvvisamente materializzarsi. È successo circa 3 mesi fa, dopo il mio rientr...