A lavoro ieri sera. Nessun
"sparecchia la tavola, apparecchia la tavola".
Più che altro a lavoro per
lavare i piatti.
Non i miei. Quelli degli altri.
Che poi poco importa se sono
miei o degli altri. Il dato di fatto è che sono sporchi e vanno
lavati, tirati a lucido, lasciati asciugare e rimessi lì in pila uno sopra l'altro per il prossimo turno, per la prossima ripartenza.
E mentre toglievo via i
residui di sporco più o meno impegnativi, pensavo a come è
necessario sapersi adattare in base a quello che scegliamo di vivere,
alle esperienze che decidiamo di approfondire.
"Vivere
e stare al mondo necessita di progressivi adattamenti,
incompleti,
parziali, temporanei"
-
Paolo Ragusa -
Adattarsi. Non adeguarsi
(che ha il sapore della lamentela, della chiusura, del rifiuto al
cambiamento). Adattarsi come fanno le radici degli alberi, che
cercano la via migliore nel terreno ma il terreno non è sempre
soffice, morbido ed accogliente; quasi sempre ci sono sassi, ostacoli
e fatica.
Eppure c'è sempre una via. Sempre.
Perchè la capacità di
adattarsi "nel vivere,
nelle relazioni, nella ricerca della felicità" ha come
significato la capacità e la presa di coscienza di fare posto anche
al limite, agli insuccessi, all'infelicità, alla fatica.
Una tensione continua verso
il meglio passando per il difficile, l'incerto, il non soddisfacente.
La sola via per avanzare
verso tutti i nostri piccoli e grandi progetti di vita.
Una costante e progressiva
costruzione di sogni, desideri, progetti ma anche di accettazione di
paure, dolori, solitudini, cicatrici che aiutano a crescere.
Adattarsi significa anche
avere la capacità di modificare la rotta del proprio viaggiare,
interiore ed esteriore. Avere la capacità di "stare
nello scarto che abbiamo scoperto e utilizzarlo come ripartenza",
come nuova possibilità creativa.
Come trovarsi tra le mani un
piatto bianco, tirato a lucido e pulito che aspetta di nuovo di
essere riempito, non solo di belle pietanze da vedere, anche di buon
cibo da assaporare.
Ky
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