Non credevo che un viaggio potesse destabilizzare così tanto
il mio mondo interiore, avevo la convinzione che un viaggio è solo un viaggio fatto
d’incontri, nuove culture, diverse credenze religiose, sapori e gusti nuovi, paesaggi
differenti ma davvero 5 anni fa non avrei mai creduto che il mio viaggiare tra Oriente ed
Occidente avesse la capacità di darmi una nuova rotta.
Certo, non va solo al viaggio il merito di questa personale
evoluzione, quasi un viaggio introspettivo-spirituale da cui, una volta
iniziato, non voglio più tornare indietro.
Se ho iniziato questo modo nuovo di viaggiare lo devo a me,
al mio sé interiore che finalmente ho scelto di ascoltare ed accogliere e a cui
sto dando fiducia passo dopo passo.
Non lo vedo come un cambiamento, e poi questa parola nemmeno
mi piace,
credo di più in un altro concetto: la consapevolezza.
Di fondo non si cambia mai così tanto, certo ci si modifica
lungo i sentieri che decidiamo di seguire, che scegliamo di tracciare da zero o che decidiamo
di non intraprendere, ed il bello non è tanto fare questi percorsi per poter
dire “sono cambiata”, “sono una persona nuova”; il bello è poter dire di aver raggiunto una consapevolezza
di sé più vera, più profonda, più naturale.
Questo per me è essere consapevoli.
Certo è che, spesso, ci portiamo sulle spalle troppi just in case, troppe zavorre,
troppi problemi -che magari nemmeno sono nostri-, troppi
pensieri negativi, e magari aggiungiamoci pure critiche e difficoltà di
relazioni interpersonali…
così non si fa molta strada, si resta sempre o quasi sulla
sponda destra del fiume senza il coraggio di provare a vedere che opportunità
offre la sponda sinistra (destra o sinistra, potete invertire l’ordine se
preferite, poco importa).
Il Buddha a tal
proposito racconta una storia che ha come protagonisti un uomo, in cui poterci
identificare, ed una zattera, a simboleggiare quello che dovremmo imparare a
lasciar andare.
“Supponiamo, disse, che un uomo
sia di fronte ad un grande fiume e deve attraversarlo per raggiungere l’altra
riva, ma non c’è una barca per farlo, cosa farà? Taglia alcuni alberi, li lega
insieme e costruisce una zattera. “Quindi si siede sulla zattera e usando le
mani o aiutandosi con un bastone, si sposta per attraversare il fiume. Una
volta raggiunta l’altra sponda cosa fa? Abbandona la zattera perché non ne ha
più bisogno.
Quello che non farebbe mai, pensando a quanto gli era stata utile, è
caricarla sulle spalle e continuare il viaggio con lei sulla schiena. Allo
stesso modo, i miei insegnamenti sono solo un mezzo per raggiungere un fine,
sono una zattera che vi trasporterà sull’altra riva. Non sono un obiettivo in
sé, ma un mezzo per ottenere l’illuminazione”.
Lo sappiamo a parole che sapersi distaccare da zavorre e
pesi sarebbe la cosa migliore per vivere più serenamente, ma poi c’è sempre
quel ma che ci fa vacillare, che ci
fa perdere entusiasmo, che ci fa un po’ da avvocato del diavolo e spesso è
proprio quel ma ad averla vinta su di
noi, a farci restare impantanati nelle sabbie mobili delle nostre esistenze
fatte di comodità, di oggetti, di lavoro, di relazioni complicate, di schemi
convenzionali che spesso uccidono la nostra vera missione in questo pianeta.
Il Buddha spiega con poche righe il racconto:
“La riva sulla quale ci troviamo è il presente,
l’esistenza legata all’ego, l’altra riva è quello che aspiriamo ad essere,
rappresenta i nostri obiettivi e sogni. La zattera ci aiuta ad attraversare le
acque, questa è la sua funzione, ma dopo dobbiamo abbandonarla“.
Sogni, obiettivi, potenzialità, chissà perché sono sempre
nell’altra sponda
e costruire la zattera per attraversa il fiume è il solo
modo per scoprire davvero chi siamo,
cosa siamo chiamati a fare
e che dono abbiamo da lasciare al mondo.
Certo ci vuole fegato anche solo per decidere di costruire
la zattera che potrebbe segnare la svolta nelle nostre piatte esistenze, ma se non ci
proviamo allora non abbiamo nemmeno il diritto di lamentarci e di piangerci
addosso.
È vero che una volta messa la zattera nel fiume si deve
avere la forza di lavorare di braccia per non farsi trascinare a valle dalla
corrente spesso troppo impetuosa, eppure è anche vero che è una traversata che
vale la pena tentare.
L’altra sponda potrebbe davvero aiutarci a capire qual’è il
nostro vero IKIGAI (lo scopo per cui ci si sveglia ogni mattina).
E’un viaggio che vale la pena tentare, magari più volte se
alla prima traversata cadiamo in acqua o ci lasciamo trascinare dalla corrente.
Spesso viviamo periodi di buio, non sappiamo in che
direzione andare e per paura restiamo fermi dove siamo.
Questi momenti vengono descritti bene da un farse di
Fabrizio Caramagna
“Quei periodi neri in cui sei come un tronco braccato da
ogni onda e sbattuto continuamente sulla riva, finché un giorno vieni
finalmente spiaggiato, e le prime parole che ti vengono incontro non ti
sbattono più da una parte all’altra e impari di nuovo la mano aperta che ti
raccoglie e la spinta che ti rialza”
Il tentativo per me è già un forte segnale di voler lasciar
andare il vecchio per dare spazio al nuovo, un nuovo che sarà di
certo differente per ciascuno di noi, ma su cui puntare tutto l’oro del mondo.
Buona traversata!
Ky
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